La narrazione tossica del fenomeno migratorio nata dal privilegio

Raccontare, decidere, gestire l’altro: una responsabilità da ripensare — di Marina Lombardi
Pubblicato il 27 giugno 2023


Mi trovo di fronte a un computer, seduta su una comoda sedia, sommersa da libri, articoli, registrazioni audio di interviste, documentazioni varie, ho accesso a internet, uno smartphone accanto a me. Posso farmi un caffè, un piatto di pasta, bere una birra, fare una doccia. Tutto questo per gettare le premesse di una condizione che è di per sé privilegiata, dalla quale mi accingo a parlare di alcune tematiche particolarmente complesse, per le quali farò riferimento a testi, vicende e spiegazioni di persone che meglio di me hanno affrontato la questione del fenomeno migratorio.

Foto di tivissima da Pixabay

Molto spesso, per lavoro, mi trovo di fronte a situazioni come conferenze stampa svolte all’interno di aule situate in edifici istituzionali, per esempio il comune, la prefettura, il palazzo della regione, altre volte in circoli ARCI, circoli politici, aule universitarie. Altre volte ancora contornata da transenne all’interno di punti stampa su un porto, pronta a fotografare le navi delle ONG e seguire l’iter procedurale per lo sbarco dei migranti, dei quali di solito parlano prefetti, sindaci, presidenti di regione, portavoci di Caritas o altre cooperative sociali.

Spesso mi sono interrogata sulle dinamiche di potere, di gestione, di processi istituzionali e burocratici, il tutto in relazione ai flussi umani di mobilità di persone. Ma ancora più spesso mi sono soffermata a pensare che dentro quelle aule si prendono decisioni su vite umane, si parla per conto di qualcun altro, si istituzionalizza il dolore, si gerarchizza l’importanza dei soggetti a seconda dell’età, del genere, del percorso di vita, ma ancora di più si distingue imprescindibilmente un “noi” e un “loro”.

Il fenomeno migratorio, così come raccontato dalla politica, dalle istituzioni, dai media, tramite ironici e satirici meme sui social, ha assunto negli ultimi dieci anni ormai connotazioni sempre più dispregiative, discriminatorie e, in alcuni casi, razziste, raccontando una realtà uniformante e totalizzante e definendo una narrazione unica del vissuto individuale. Sembrerebbe quasi banale dire che troppe sono le differenze legate ai percorsi di arrivo, di integrazione, alle aree di provenienza o alla tipologia di riconoscimento giuridico, ma non è così.

Per comprendere le migrazioni non possiamo infatti pensare di adottare uno sguardo totalizzante e unificante, decretato da un unico termine, ma al contrario dobbiamo imparare a distinguere le differenze,  a diversificare, a cogliere specificità, a situare le varie forme di mobilità entro giunture e contesti specifici, aprendo lo sguardo a uno scenario più elastico, indagando le caratteristiche storiche e antropologiche delle categorie istituzionali e sociali utilizzate, per poi gettare le basi per la costruzione di risposte adeguate ai vari problemi.

1. Migrante politico da una parte, migrante economico dall’altra: questa distinzione categoriale forma una specifica narrazione sociale
Come effetto degli eventi accaduti prima del 1° gennaio 1951 il rifugiato è colui che nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza, la sua appartenenza a un gruppo sociale, le sue opinioni politiche si trova fuori dallo stato di cui possiede la cittadinanza e non può o non vuole, domandare la protezione al suddetto stato; oppure chiunque essendo apolide e trovandosi fuori dal suo Stato di domicilio in seguito a tale avvenimento, non può o per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”.

La categoria di rifugiato viene proposta dalla Lega delle Nazioni, e in seguito adottata dal diritto internazionale, e va a formare l’articolo 1a della Convenzione di Ginevra del 1951. Nel diritto internazionale si ritiene che la definizione sia chiara e condivisa. In altri ambiti, come in particolare nell’antropologia, ci si chiede se non sia necessario delimitare un campo di studi a partire da categorie normative create per necessità di governo.

L’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite creata per offrire protezione internazionale ai rifugiati e trovare soluzioni definitive al problema nel dopoguerra, ha definito due categorie distinte di  tipologia di sfollati: i migranti economici e i migranti politici. I due vengono sottoposti a regimi giuridici e a una gestione politica e amministrativa separata. La distinzione tra le due categorie non appare sempre chiara, ma viene comunque sempre troppo rigidamente definita, con una visione in bianco o nero, che non tiene conto delle sfumature di processi e condizioni di vissuti individuali.

L’idea di de-costruire questa macro-distinzione dei movimenti e della mobilità umana, una distinzione che simultaneamente ha una storia, che è discussa e dibattuta e dalla quale dipende il destino di persone già di per sé in condizioni di svantaggio sociale, economico e spesso medico, non è ricevuta da tutti come ovvia o utile. Diverse discipline si interrogano su quanto sia proficuo utilizzare queste categorie chiedendosi se abbiano la funzione di oscurare la realtà più complessa, rendendo il fenomeno migratorio alquanto discutibile, spesso, in aule di tribunali.

Come riporta Barbara Sorgoni in Antropologia delle migrazioni del 2022, secondo molti occorre considerare come migranti forzati sia coloro che scappano da un paese per persecuzione politica sia chi viene sradicato e ri-collocato a causa di progetti governativi di sviluppo (es. costruzione di dighe o strade, ampliamento di centri urbani), sia chi è costretto a ricominciare altrove a seguito di calamità o disastri naturali, anche indotti dai cambiamenti climatici.
Altri ritengono che sia necessario distinguere coloro che scappano da violenze o persecuzioni poiché anche se non considerate adeguatamente e inserite in quella stessa categoria, devono ricevere o essere inserite in programmi specifici di intervento. Questo implica ad ogni modo l’obbligo morale di riconoscere l’unicità delle esperienze vissute e attenzionare la salvaguardia della produzione di conoscenza rispetto a determinate politiche governative neo-coloniali, di sviluppo e migratorie.
L’elemento distintivo delle due categorie non sembra essere tanto quello della violenza quanto quello della scelta. Il rifugiato è colui che non può restare nel proprio paese ed è costretto a migrare. Ed è proprio questo elemento della non scelta a definire i migranti forzati dai migranti economici.

L’antropologa Bridget Hayden1Dichiarazione del 2006 citata da Barbara Sorgoni in Antropologia delle Migrazioni (2022). mette in risalto l’opposizione delle due categorie basata su una particolare idea di individuo modellata sul soggetto della tradizione liberale: con «Un soggetto impossibilitato a scegliere, privo di volontà o privato della capacità di esercitarla, spogliato di ogni risorsa culturale o rete sociale». Tale concetto deriva dall’idea di un individuo libero e inviolabile, prodotto secondo un processo storico e culturale dalla tradizione “occidentale” neoliberale dalla quale derivano una serie di regole culturali, sociali e legislative che portano la persona migrante ad essere sottoposta non solo al riconoscimento dello status finalizzato a distinguere i veri rifugiati dai falsi rifugiati, ma anche a sottostare a logiche gestionali e comportamentali a loro completamente sconosciute. Si fa spesso riferimento a queste persone come se la caratteristica di rifugiato fosse intrinseca all’essere del soggetto, come se si trattasse di una qualità umana della quale i soggetti a cui appartiene non possano disfarsi poiché loro “sono rifugiati”. La struttura semantica più adatta sarebbe, a questo proposito, “sono diventati rifugiati” proprio perché rifugiati si diventa, non si è.

Nel momento in cui lo status di rifugiato assume una connotazione culturale ben precisa, rifacendosi a valori e caratteristiche strutturate culturalmente, alimenta anche un certo tipo di narrazione su quei soggetti, quelli “arrivati”, “accolti”, “che devono uniformarsi alla società ospitante”. Ecco, quindi, che il valore delle parole si forma attraverso una serie di impronte culturali e accezioni specifiche, che segnano l’identità ma ancor di più lo status sociale di una persona.

La legislatura europea in materia di migranti, la suddivisione in categorie, l’iter burocratico di regolarizzazione, la permanenza nei centri d’accoglienza, accomunata a tutto il lessico utilizzato dai media al fine di diffondere notizie, stabiliscono una narrativa culturale che assume connotazioni specifiche nell’immaginario comune e si rivolge al “migrante” andando a formare una “categoria immaginaria” ben precisa. Dalle dichiarazioni ufficiali, come quella del febbraio 2022 del ministro Matteo Salvini che in merito all’accoglienza dei profughi ucraini disse che loro “sono veri rifugiati”, ad altre affermazioni comuni come “perché li dobbiamo proteggere? Lì non c’è la guerra”2Affermazioni raccolte nel corso del mio lavoro come giornalista., si percepisce un clima per cui alcuni esseri umani sono ben accetti solo nel momento in cui provengono da un paese in cui la guerra è accertata e ancora meglio, se questo paese è culturalmente e geopoliticamente vicino al nostro.

Nella narrazione quotidiana, tutto ciò esclude automaticamente, per esempio, coloro che provengono da contesti di violenza familiare, dettata per esempio dalla stregoneria, chi si sposta per migliorare le proprie condizioni di vita e affronta un viaggio segnato da torture e abusi fisici, arresti illeciti; chi è costretto a scappare per i motivi più disparati, non soltanto dettati da una guerra in atto.

I casi di cui da anni si occupa l’antropologia sono tra i più disparati e ognuno di essi insegna che l’unica via possibile per un equo e giusto procedimento legale è la valutazione del singolo caso, azione che sempre più spesso viene svolta da una commissione giuridica legata ad una legislatura troppo rigida e spesso discriminatoria, che decreta costanti dinieghi e porta non solo a un allungamento dei tempi di permanenza dei richiedenti in centri d’accoglienza, ma anche a produrre un sistema che crea di per sé una costante dipendenza di questi soggetti in attesa della documentazione o del riconoscimento dello status, che sono di fatto bloccati.

Alcune testimonianze3Testimonianze da me raccolte nel periodo luglio-agosto 2022. di operatori e operatrici all’interno dei CAS4Centri di Accoglienza Straordinaria., hanno affermato che la richiesta da parte delle commissioni sta diventando sempre più rigida e discriminante così da indurre la necessità di costruire una storia ad hoc, credibile dalla legge, poiché la semplice verità non basta. Questo è avvenuto soprattutto in casi in cui i richiedenti avevano portato di fronte alla commissione una realtà troppo assurda per essere creduta, e, anche se affermata dai referti clinici, non era sufficiente.Un altro tema importante da tenere presente è quello delle vie legali. Queste infatti, che dovrebbero creare il modo più sicuro per raggiungere l’Italia e l’Europa, sono ben poche, almeno per molti di quei paesi categorizzati come il sud del mondo, il cui percorso migratorio è caratterizzato da una serie di dinamiche e giochi d’astuzia che spesso si rivelano pericolosi. Basti pensare che dopo la ritirata degli americani dall’Afghanistan e la presa dei Talebani le ambasciate europee hanno chiuso i battenti, cosicché molti migranti afgani per diventare rifugiati politici hanno messo in atto strategie di attraversamento dei confini per recarsi ai consolati europei in Iran. L’esempio dell’Afghanistan è il più semplice poiché i migranti una volta raggiunta l’Europa hanno ottenuto un’accelerazione del processo di regolarizzazione, rispetto ad altre rotte migratorie, per il semplice motivo che la guerra del paese era sotto gli occhi e accertata dall’intero mondo. Ma che ne è degli altri?

2. La logica dell’aiuto e la reciprocità del dono
Di recente mi sono trovata ad una conferenza stampa durante la quale avveniva la consegna di certificazioni lavorative ad una decina di migranti provenienti da Somalia, Egitto, Tunisia, Bangladesh. Tematica di per sé emblematica ma sulla quale mi soffermerò per fare riferimento ad alcune dichiarazioni rilasciate quali: “Hai un senso di restituzione nei confronti dello stato che ti ospita”; “noi abbiamo il dovere di accogliere ma loro hanno il dovere di restituire”5Dichiarazione ufficiale della prefetta della Spezia Maria Luisa Inversini, (2023)..

Durante questa occasione, alcune delle dichiarazioni ufficiali hanno confermato l’andamento delle narrazioni sociali sul tema delle migrazioni di cui l’antropologia si occupa nel tentativo di decostruirle e intimandone la problematicità. Dichiarazioni come quella sopra indicata riportano inevitabilmente alle considerazioni sul dono di Marcel Mauss di inizio Novecento. Gli interventi nel campo dell’accoglienza sono mossi da sentimenti come la compassione, come spiega la studiosa Barbara Harrel-Bond, le cui azioni seguono una logica morale propria, poiché vengono percepite come doni, il cui valore è immisurabile. Nel Saggio sul dono, Mauss riflette sulla natura morale del dono stesso, che stabilisce delle relazioni sociali e dinamiche di potere, secondo la triplice sequenza dare-ricevere-restituire che istituisce la reciprocità. Il ricevente, che non può restituire il dono, si trova quindi in una posizione di inferiorità che può assumere connotazioni umilianti.

Un richiedente asilo in questa situazione incarna una posizione di svantaggio nella quale è messo nella condizione di dover restituire, ma non ha le possibilità di farlo. Si tratta di un concetto dal quale si propaga l’idea sociale per cui ci si aspetta da lui una serie di azioni che non riguardano solo il “rispetto delle regole e l’uniformarsi alla cultura ospitante”6Riferimento alla Scuola di Chicago con il modello teorico di Park, il Melting Pot, modello di insediamento composto da cinque fasi: isolamento, competizione, conflitto, adattamento, assimilazione (si diventa cittadini di quel posto, si diventa come tutti gli altri assumendo tutte le caratteristiche del paese ospitante e dimenticando le proprie particolarità di appartenenza)., ma anche una sorta di gratitudine costante, sentimento dentro il quale vivrà per tutta la sua permanenza in un dato territorio.

Il modo in cui si fa riferimento alle tematiche delle migrazioni assume quindi influenze che derivano dal lessico giuridico spesso mal interpretato, dal lessico politico comunicato tramite slogan come “prima gli italiani” o dalle dichiarazioni standardizzate e compresse riducendone i concetti a poche ma semplici parole, il tutto a creare un impasto di pensieri che vanno a formare una realtà distorta, che nella maggior parte dei casi, come già detto, assume connotazioni dispregiative e discriminatorie.

A incrementare questa realtà percettiva distorta è anche l’associazione migrante-illegalità, che troppo spesso si è vista tra titoli di giornali e dichiarazioni politiche. Ed è proprio questa logica di accomunazione che porta a specificare, in ambienti istituzionali che si occupano di migrazione,  come “non c’è legalità senza integrazione”, quasi a dare per scontato che dove c’è migrazione, c’è illegalità.

A questo proposito, l’antropologo Nicholas De Genova afferma che l’illegalità è uno status giuridico che intrattiene relazioni sociali con lo Stato. Come tale, l’illegalità dei migranti è primariamente un’identità politica. Sempre secondo lui l’illegalità non serve tanto a escludere fisicamente i migranti, quanto a includerli socialmente come soggetti sottoposti a condizioni vulnerabili forzate e prolungate.

La presa di coscienza su queste tematiche non esclude la necessità di trovare una soluzione istituzionale per determinate condizioni di criticità, ma al contrario, è necessaria per ripensare e per mettere in discussione non solo la narrazione stessa della migrazione, ma anche in un più ampio spettro, il sistema stesso della “gestione” dell’accoglienza e della legislatura, perché come insegna la ricerca scientifica, solo attraverso lo studio delle condizioni reali si possono trovare risposte adatte alle criticità.


Riferimenti:

De Genova N.P., Migrant ‘Illegality’ and Deportability in Everyday Life, «Annual Review of Anthropology», 31, 2002;

Harrel-Bond B.E., Imposing Aid: Emergency Assistance to Refugees, Oxford, Oxford University Press, 1986;

Mauss M. (1924), Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 2002;

Sorgoni B., Antropologia delle Migrazioni. L’età dei rifugiati, Roma, Carocci, 2022.