di Chiara Pedrocchi e Marina Lombardi
Pubblicato il 18 febbraio 2023
Introduzione a cura di Chiara Pedrocchi, ‘Denunciare il razzismo raccontando la propria storia’ a cura di Marina Lombardi, ‘Parlare di femminismo non dando nulla per scontato’ a cura di Chiara Pedrocchi.
Parlare di Chimamanda Ngozi Adichie significa intrecciare tre fili: quello della letteratura, quello dell’attivismo e quello dell’antropologia.
Al centro delle sue opere ci sono delle tematiche sociali dibattute e scottanti tanto negli Stati Uniti, dove la scrittrice trascorre parte del suo tempo dividendosi tra lì, a Baltimora, e la sua casa in Nigeria, quanto in Italia: si parla di femminismo, di migrazioni e di razzismo, di globalizzazione e di povertà. La trattazione di queste tematiche da un punto di vista schierato la rende un’attivista a tutti gli effetti, per quanto lei stessa abbia dichiarato di aver sempre affrontato questi temi in modo naturale, e di essersi resa conto solo quando interpellata per un secondo TED Talk di aver sempre spontaneamente parlato di femminismo.
Della sua attività letteraria servono poche presentazioni: dopo il debutto con L’ibisco viola nel 2003, Metà di un sole giallo, il suo romanzo uscito nel 2006, è stato inserito dalla BBC tra i 100 libri più influenti al mondo [link]. Ma è con Americanah, il suo romanzo uscito nel 2013, che l’autrice ha conosciuto il suo massimo successo in Italia.
Ma che cosa c’entra l’antropologia con tutto questo?
Chimamanda Ngozi Adichie è osservatrice e testimone diretta di tutto ciò che poi racconta: donna nera, nata e cresciuta nel sud della Nigeria e trasferitasi per studio prima a Filadelfia e poi nel Connecticut, non c’è motivo per negare alla prospettiva da cui narra le vicende dei suoi personaggi l’appellativo di etnografica. Una scelta di questo tipo ha il vantaggio di avvicinare a queste tematiche e a questa angolazione persone che altrimenti, forse, non se ne curerebbero, ed è una scelta di posizionamento tutt’altro che innovativa se consideriamo ad esempio il valore sociale delle opere appartenenti alla corrente letteraria del naturalismo già alla fine del XIX secolo, con Verga in Italia o con Balzac e Zola in Francia, ma è anche una scelta sempre più urgente e sempre più comune tra alcune autrici di sesso femminile: non è un caso se nel 2022 il premio Nobel per la letteratura è stato conferito dall’Accademia di Svezia all’autrice francese Annie Ernaux con motivazione ufficiale “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui scopre le radici, le estraneità e i vincoli collettivi della memoria personale” [link].
Tutto questo significa che i romanzi di Chimamanda Ngozi Adichie sono delle etnografie? Non propriamente, perché ad essere etnografica è solo la prospettiva da cui prende le mosse la scrittura, e, nel momento in cui alla realtà si mescolano elementi di finzione letteraria, non la strutturazione di una storia.Oltre al libro di Chimamanda, tra i 100 libri che hanno modellato il mondo secondo la BBC c’è anche Amatissima di Toni Morrison, autrice coloniale afroamericana vincitrice del Nobel per la letteratura nel 1993. È proprio Toni Morrison una delle scrittrici che più hanno ispirato il lavoro di Chimamanda Ngozi Adichie, che nel ricordarla scrive “She was Black and she didn’t apologize for her Blackness, and she didn’t pander and she didn’t temper the painful reality of Black American history, in a country that often seemed keen to minimize it. She stared pain in the face, unblinking. She wrote about what was difficult and what was necessary and in doing so she unearthed for a generation of people a kind of redemption, a kind of relief. I loved her fiction and her essays”1“Era nera e non ha chiesto scusa per la sua nerezza, e non ha assecondato e non è stata indulgente con la dolorosa realtà della storia americana nera, in un paese che spesso sembrava minimizzarla. Lei la guardava dritta in faccia, senza battere ciglio. Ha scritto di ciò che era difficile e di ciò che era necessario e nel farlo ha scovato per una generazione di persone una sorta di redenzione, una specie di sollievo. Amavo i suoi romanzi e i suoi saggi.” (Traduzione di chi scrive); https://brittlepaper.com/2019/08/twelve-african-writers-on-the-legacy-of-toni-morrison-for-decades-the-greatest-living-writer/.
Ma Toni Morrison non è l’unica figura letteraria che Chimamanda Ngozi Adichie ha ben presente quando scrive. L’autrice ha infatti in mente anche l’insegnamento dello scrittore nigeriano Chinua Achebe, considerato il padre della letteratura africana, di cui Daria Tunca, professoressa di letteratura africana, la definisce la figlia letteraria. Sosteneva infatti Chinua Achebe nei suoi lavori che gli scrittori africani avessero il dovere di usare la propria arte come arma per cambiare la propria società e aiutarla a tornare a credere in sé stessa, e i propri testi per educare le altre società sulla propria cultura. Come scrive Aghogho Akpome, professore presso l’Università di Zululand in Sud Africa, inoltre, Achebe considerava la forma del romanzo il perfetto strumento per esplorare la relazione tra l’immaginazione sociale degli scrittori e le realtà materiali culturali, economiche e politiche. Prendendo l’esempio di Americanah, questa esplorazione avviene seguendo il percorso della protagonista, Ifemelu, nigeriana come l’autrice e come lei emigrata negli Stati Uniti per studiare. La protagonista tiene inoltre un blog, che la mette in contatto con chi della sua cultura non sa nulla e che si fa metastrumento per rivolgersi al lettore e svolgere il ruolo di etnografia militante, cioè politicamente impegnata. D’altronde è stata lei stessa a suggerire ai giovani, in un’intervista per New African [link], di attivarsi per cambiare la realtà aprendo un proprio blog, parlando delle cose che non vanno, chiamando in causa le persone responsabili per la gravità delle situazioni che essi stessi si trovano a fronteggiare. L’intervista risale al 2021, ma lei in Americanah ne era già esempio nel 2016:
Nelle guide turistiche ti dicono cosa aspettarti se sei gay o se sei una donna. Che diavolo, dovrebbero fare lo stesso anche per chi è inequivocabilmente nero. Facciamo sapere ai neri che viaggiano qual è il problema. Nessuno vi sparerà, certo, ma farà comodo sapere dove è possibile che la gente vi guardi fisso. Nella Foresta Nera, in Germania, quello sguardo era particolarmente ostile. A Tokyo e Istanbul, erano tutti freddi e indifferenti. A Shanghai lo sguardo era intenso, a Delhi antipatico. Ho pensato: «Ehi, ma non siamo nella stessa barca? Insomma, gente di colore e tutto il resto?» Ho sempre letto che il Brasile è la mecca delle razze, ma vado a Rio e non vedo nessuno come me nei ristoranti e negli hotel eleganti. La gente ha un comportamento strano quando faccio la coda per la prima classe all’aeroporto. Sembrano divertiti, come se mi fossi sbagliato: non puoi avere quell’aspetto e volare in prima classe. Vado in Messico e mi fissano. Non è uno sguardo ostile, per nulla, ma ti ricorda sempre che spicchi, nel senso: gli piaci ma sei pur sempre King Kong.2N.C. Adichie, Americanah, Torino, Einaudi, 2015, p. 344.
Nel suo primo TED, che risale al 2009, Chimamanda Adichie parlava di “danger of a single story”, vale a dire del pericolo di un’unica storia: quella raccontata dalla prospettiva di chi ha il coltello dalla parte del manico nelle dinamiche di potere che governano il mondo e che hanno schiacciato persone e culture. Diceva Chimamanda che
It is impossible to talk about the single story without talking about power. There is a word, an Igbo word, that I think about whenever I think about the power structures of the world, and it is “nkali.” It’s a noun that loosely translates to “to be greater than another.” Like our economic and political worlds, stories too are defined by the principle of nkali. How they are told, who tells them, when they’re told, how many stories are told, are really dependent on power. Power is the ability not just to tell the story of another person, but to make it the definitive story of that person.3“È impossibile parlare di un’unica storia senza parlare di potere. C’è una parola, una parola igbo, a cui penso ogni volta che penso al potere che conferisce struttura al mondo, ed è “nkali”. È un termine che viene genericamente tradotto con “essere più grande di un altro”. Come i nostri mondi economici e politici, anche le storie sono definite dal principio di nkali. Come sono raccontate, chi le narra, quando vengono dette, quante vengono narrate, tutto ciò dipende dal potere. Il potere è l’abilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farne la storia definitiva di quella persona.” (Traduzione di chi scrive).
Denunciare il razzismo raccontando la propria storia
Il tema del razzismo è affrontato in maniera fluida e semplice in tutta la sua complessità, delineando un razzismo con cui ci si scontra immediatamente. Con lo stile narrativo che la contraddistingue, Chimamanda narra più punti vista, dalle sue parole non emerge una sola storia, ma una storia all’interno della quale coesistono più storie. Racconta un razzismo celato dietro parole e concetti pacifisti ed inclusivi, diffusi grazie a una logica buonista capitanata da un sistema che appartiene alla tradizione culturale neoliberale, dentro la quale l’altro, ossia il nero, l’africano, deve a forza inserirsi. Un mondo nel quale l’accettazione dell’altro è l’emblema dell’essere un buon-cittadino-che-aiuta-il-prossimo. La problematica legata a questa percezione è che l’idea dall’accettazione dell’altro, sia mascherata da una logica di inglobazione4Teoria dell’assimilazione, Scuola di Chicago, Robert Ezra Park. dell’altro all’interno della società, nella quale deve inserirsi abbandonando le proprie specificità culturali o seguire delle logiche di comportamento ben definite. Il mondo che Adichie racconta bene nel suo libro Americanah, può essere letto anche in ottica antropologica,in relazione a quella che è la teoria dell’assimilazione di Robert Park sul “processo di integrazione di singoli, gruppi o intere popolazioni all’interno di una società ospite, attraverso l’interiorizzazione e l’accettazione di gran parte degli elementi della cultura di questa. Tale forma di integrazione si osserva soprattutto nei fenomeni di immigrazione, nei quali, in un tempo che può richiedere più generazioni, gli immigrati abbandonano i modelli di comportamento propri della cultura d’origine, fino a sostituirli con i modelli dominanti, ai quali conformano da quel momento in avanti la propria condotta”.
Il razzismo narrato da Chimamanda è un razzismo di cui la vittima stessa non è consapevole, perché non l’ha mai conosciuto prima. Un tipo di razzismo che costruisce delle linee di pensiero e degli schemi pensati dal più forte, entro i quali il più debole deve risiedere. Americanah descrive, tramite la narrazione centrale di una storia di vita, la presa di consapevolezza di un nero di essere nero solo nel momento in cui oltrepassa i confini degli Stati Uniti. Un mondo in cui i bianchi si aspettano che i neri agiscano in un determinato modo, e i neri imparino quegli stessi comportamenti. È un razzismo che crea quella che possiamo definire una “cultura nera”, della quale i neri non sanno nulla, ma alla quale sono soggetti. Come spiega meglio nel paragrafo riportato in Americanah Ai miei amici neri non americani: in America siete neri, cari miei: “E visto che siete neri, siete tenuti ad agire di conseguenza: dovete far capire che vi offendete quando espressioni come «mangiacocomero» o «bambino di pece» vengono usate nelle battute, anche se non sapete neppure di cosa cavolo si stia parlando, e dato che siete Neri Non Americani, ci sono molte possibilità che non ne abbiate idea”5N.C. Adichie, Americanah, Torino, Einaudi, 2015, p. 229..
Chimamanda descrive un sistema culturale che assume connotazioni egemoniche, all’interno del quale, cioè, una cultura prende il sopravvento su un’altra creando le basi per una supremazia. Chimamanda non è un’antropologa, non fa etnografia, ma decostruisce le tematiche critiche problematizzandole con un’estrema semplicità. Il suo attivismo si connota con il racconto di storie perché “(…) le storie si possono usare anche per dare forza e umanizzare. Le storie possono spezzare la dignità di un popolo. Ma le storie possono anche riparare quella dignità spezzata”6N.C. Adichie, Il pericolo di un’unica storia, Torino, Einaudi, 2020..
Inizia a scrivere dall’età di sette anni e tutti i suoi primi personaggi sono bianchi, con gli occhi azzurri. Giocano nella neve, mangiano mele, bevono ginger beer e parlano del tempo. Questo, nonostante lei vivesse in Nigeria, e non fosse mai uscita dalla Nigeria, dove si mangia il mango e nessuno mai parla del tempo, “perché non ce n’è bisogno” racconta al TED del 2009. Leggeva libri inglesi e americani, racconti proposti da un’industria in continua espansione che propaganda un’ideologia di pensiero basata su un punto di vista culturale che tiene generalmente conto solo di una metà del mondo. Con i mondi politici ed economici di cui facciamo parte, anche le storie sono definite dal principio di essere più dell’altro, chi ha più capitale da investire ha più possibilità di esportare storie e di spargerle per il mondo. Il punto è, come sono raccontate le storie, da chi sono raccontate, quando e quante se ne raccontano. Tutto ciò dipende dal potere e come ricorda Chimamanda Adichie “il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona”7N.C. Adichie, Il pericolo di un’unica storia, Torino, Einaudi, 2020.. “Grazie al potere economico dell’America io avevo più storie dell’America, che me la raccontavano — ha spiegato al TED del 2009 — della Nigeria non giravano storie, e la storia unica crea stereotipi, fa diventare una storia la sola storia”. Il poeta palestinese Mourid Barghouti scrive «se si vuole espropriare un popolo il modo più semplice di farlo è di raccontare la loro storia”, e di cominciare questa storia con “in secondo luogo»”.
Si rende conto che la cultura a cui si era affidata le aveva dato la possibilità di aprire la sua mente a nuovi orizzonti, quindi, totalmente differenti da quelli che aveva di fronte, che viveva e che toccava con mano. I romanzi inglesi si trovavano in commercio ed erano a buon prezzo, erano dappertutto quando era piccola. Quei libri, pensava, raccontavano la storia vera, quella con cui lei non poteva identificarsi, perché nessuno di quelli descriveva il mondo che conosceva, nemmeno lontanamente. Quei libri le raccontavano nuovi mondi, ma a causa di quelli, non sapeva che gli africani potessero esistere nella letteratura. Tutto inizia a cambiare quando scopre i libri africani, non erano molti ma grazie a Chinua Achebe e Camara Laye, la sua percezione della letteratura cambia, e anche la sua scrittura, perché inizia a scrivere di ciò che conosce. Nel corso della sua vita ha avuto modo di identificarsi sia con la posizione di privilegiata, sia con quella di povertà, proprio quando si trasferisce negli USA inizia a conoscere un mondo fatto di regole culturali non scritte che la rendevano di fatto diversa. Sensazioni e percezioni che racconta per filo e per segno con la storia di Ifemelu, sempre nel libro Americanah.
Il libro affronta il tema di uno specifico razzismo, quello del bianco nei confronti del nero. Ma non si limita a descrivere il razzismo definito da una semplice discriminazione violenta dell’altro, ma costruito tramite un sistema culturale fatto di idee veicolate dai media, dai libri, dal cinema. Un sistema di pensiero grazie al quale si creano logiche di comportamento e di idee con le quali si definisce l’altro. In America, i bianchi incontrati da Ifemelu sono spesso persone che con le loro parole e azioni propagano una retorica del più debole che va aiutato, e che non segue una logica di aperta discriminazione, bensì, un tipo di razzismo intrinseco alle azioni buoniste. Un tipo di atteggiamento di cui i bianchi si fanno portatori di una carità nei confronti dei neri, in cui si propaga una pietà condiscendente e piena di buone intenzioni, che conoscono i neri solo grazie ad un tipo di storia raccontata, da un solo punto di vista, quello dei bianchi. “Il pericolo di una sola storia” lo definisce Chimamanda, una modalità di narrazione mediatica che ritrae l’africa subsahariana come un luogo di negatività, di differenze, di persone che sono “mezzi diavoli, mezzi bambini” nelle parole di Rudyard Kipling.
Da tutto ciò deriva una conclusione che è quella che definisce anche le premesse del razzismo, il concentrarsi su ciò che rende diversi da noi, e non su ciò che ci rende uguali.
Parlare di femminismo non dando nulla per scontato
Nel 2012 Chimamanda Ngozi Adichie sale sul palco a Euston con un TED talk dal titolo “We Should Be All Feminists”. Il testo del discorso viene riadattato e viene pubblicato come saggio sia in inglese che in italiano nel 2014. La potenza del testo risiede tanto nel contenuto quanto nella forma: Chimamanda riesce a toccare tutti i punti alla base del femminismo senza risultare noiosa né tanto meno accademica, ma scegliendo la strada della sintesi e un linguaggio breve, immediato, a tutti comprensibile e a tutti rivolto.
Conosco una donna che ha gli stessi titoli di studio e lo stesso lavoro del marito. Quando tornano a casa, è lei a occuparsi di gran parte delle faccende domestiche, e questo accade in molti matrimoni, ma la cosa che mi ha colpita è che quando lui cambia il pannolino al bambino lei lo ringrazia.
E se invece le sembrasse normale e naturale che il marito si occupi del figlio?8N.C. Adichie N.C., Dovremmo essere tutti femministi, Torino, Einaudi, 2021, p. 38.
È grazie alla semplicità (che non significa semplificazione) con cui Chimamanda narra la realtà che nel 2015 in Svezia il testo è stato distribuito gratuitamente a tutti i sedicenni [link]. È d’altronde con la medesima immediatezza di linguaggio che nel 2017 esce sia in inglese che in italiano il testo Cara Ijeawele: quindici consigli per crescere una bambina femminista: nella forma di lettera a un’amica che le ha chiesto alcuni consigli quando è nata sua figlia, Chimamanda educa e insegna come diventare o migliorare la visione femminista. Il suo linguaggio, intimo e universale, arriva così a tutte le persone facendole sentire chiamate in causa, attribuendo (anche) a loro la responsabilità di un mondo ancora troppo maschilista e mostrando che basta poco, nei piccoli gesti quotidiani, per abbattere tanti bias di cui ancora siamo vittime.
Chimamanda d’altronde non fa mistero della sua insofferenza verso quello che definisce femminismo accademico occidentale, a giudicare, per esempio, da queste sue parole pronunciate in occasione di una lunga intervista rilasciata al Guardian, nel 2017:
“I’m already irritated,” Adichie says. “This idea of feminism as a party to which only a select few people get to come: this is why so many women, particularly women of colour, feel alienated from mainstream western academic feminism. Because, don’t we want it to be mainstream? For me, feminism is a movement for which the end goal is to make itself no longer needed. I think academic feminism is interesting in that it can give a language to things, but I’m not terribly interested in debating terms. I want people’s marriages to change for the better. I want women to walk into job interviews and be treated the same way as somebody who has a penis.”9“Sono già irritata” dice Adichie. “L’idea di femminismo come di un partito al quale sono una ristretta cerchia di persone può arrivare: questo è il motivo per cui così tante donne, in particolare donne nere, si sentono alienate dal femminismo accademico occidentale mainstream. Perché, non vogliamo che sia mainstream? Per me, il femminismo è un movimento il cui obiettivo finale è rendersi non più necessario. Io penso che il femminismo accademico sia interessante per il fatto di dare un linguaggio alle cose, ma non sono così interessata al dibattito sulla terminologia. Voglio che i matrimoni delle persone cambino in meglio. Voglio che le donne si presentino ai colloqui di lavoro e siano trattate allo stesso modo delle persone che hanno un pene. (Traduzione di chi scrive.
Nei suoi testi Chimamanda tocca implicitamente anche un altro tasto che non va trascurato: si tratta dell’intersezionalità, termine coniato nel 1989 da un’attivista e giurista statunitense di nome Kimberlé Williams Crenshaw e che “descrive i modi in cui sistemi di inegueguaglianza basati su genere, razza, etnia, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, classe e altre forme di discriminazione “si intersecano” per creare dinamiche ed effetti unici” [link]. Osservare le situazioni di oppressione da un punto di vista intersezionale significa dunque non isolare le lotte come se quella femminista non riguardasse quella antirazzista, quella di classe ecc., ma concentrarsi sulle, appunto, intersezioni. Cosa che Chimamanda sa fare benissimo, soprattutto unendo magistralmente femminismo e antirazzismo, sebbene abbia dichiarato che è il sessismo, più del razzismo, a darle rabbia: il primo, infatti, ha ancora bisogno di essere giustificato, e questo la fa sentire molto sola.
È tuttavia proprio per una questione legata all’intersezionalità che alcuni anni fa Chimamanda si è ritrovata a dover gestire una bufera d’odio non indifferente. È il caso di introdurre un nuovo concetto: si tratta del transfemminismo, che la studiosa e attivista Emi Koyama ha definito come “un movimento fatto da e per le donne trans che vedono la loro liberazione come intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le donne e oltre”. Se il femminismo si batte per l’uguaglianza di genere e per i diritti delle donne, il transfemminismo slega il movimento di rivendicazione dal genere assegnato alla nascita in base al sesso nell’ottica binaria uomo/donna. Questa corrente include e pone un’attenzione particolare alle persone transgender nate di sesso maschile ma che si identificano nel genere femminile. Con questo concetto la lotta femminista getta un ponte con il mondo queer e finisce inevitabilmente per estendersi alle rivendicazioni del femminismo decoloniale, legato alle lotte antirazziste.
È il 2017 quando, dopo che We Should Be All Feminist diventa un motto stampato sulle magliette e ripreso da Beyoncé, nel corso di un’intervista a Channel 4 [link] Chimamanda Ngozi Adichie dichiara che, quando le domandano se le donne trans siano donne, lei risponde che le donne trans sono donne trans, e aggiunge che per lei molto dipende dall’esperienza di vita e dal fatto che prima di cambiare genere hanno avuto la possibilità di godere dei privilegi di cui godono gli uomini. Chimamanda ribadisce poi il suo sostegno alle persone trans, ma si concentra sul fatto che non tutte le storie sono riconducibili a un’unica esperienza.
Non sta a chi scrive prendere posizione in questo contesto, schierandosi a difesa dell’una o dell’altra posizione, ma ciò che occorre evidenziare è l’energia con cui, ancora una volta, Chimamanda Ngozi Adichie ha scardinato un concetto, quello dell’intersezionalità, che è il carburante di molte rivendicazioni, per rimetterlo al centro, rivederlo, ridiscuterlo per potersi ri-posizionare o per confermare le proprie idee dopo averlo ripassato. Ancora una volta Chimamanda stravolge ciò che viene dato per assodato, e lo fa per via di un attivismo che smette di essere relegato ai libri o ai palchi su cui prende parola ma riguarda la sua personalità a 360° e, di nuovo, giungendo a tutti, anche a chi non si sia confrontato con le sue opere.
Risiede d’altronde qui l’essenza e il valore di Chimamanda Ngozi Adichie, intendendo, con questo nome, l’insieme dei suoi lavori, la sua figura pubblica, il suo modo di esprimersi e la sua influenza. In una società sempre più polarizzata, sempre più densa di echo chambers [link], ovvero di camere di risonanza dove sui social si incontrano e fomentano persone che già condividono le stesse idee, in un contesto di infodemia dove si prendono per buone informazioni tanto quanto concetti non necessariamente verificati, l’insegnamento più grande è quello che Chimamanda già riassumeva nel suo TED Talk del 2009 dal titolo The Danger of a Single Story: non esiste un’unica storia, un’unica narrazione, ma non esiste nemmeno un unico punto di vista, un’unica prospettiva. Ciò che deve esistere, di conseguenza, è il confronto, il coraggio di mettere tutto in discussione in qualsiasi momento, il ribaltamento non solo della prospettiva di chi ha vedute diverse ma anche della propria, di chi è vicino alle proprie idee e il rifiuto di ogni verità preconfezionata. “Teach her never to universalize her own standards or experiences. Teach her that her standards are for her alone, and not for other people. This is the only necessary form of humility: the realization that difference is normal.”10“Insegnale che i suoi standard sono per lei e basta, e non per le altre persone. Questa è l’unica necessaria forma di umiltà: realizzare che la differenza è normale”. (Traduzione di chi scrive).
N.C. Adichie, Dear Ijeawele, or A Feminist Manifesto in Fifteen Suggestions, Londra, HarperCollins, 2017.
Riferimenti:
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Adichie N.C., Americanah, Torino, Einaudi, 2020;
— Dear Ijeawele, or A Feminist Manifesto in Fifteen Suggestions, London, HarperCollins, 2017;
— Dovremmo essere tutti femministi, Torino, Einaudi, 2021;
— Il pericolo di un’unica storia, Torino, Einaudi, 2016;
— L’ibisco viola, Torino, Einaudi, 2016;
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— Chimamanda Ngozi Adichie: We should all be feminists, 2013, <https://www.ted.com/talks/chimamanda_ngozi_adichie_we_should_all_be_feminists>;
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