Vanchiglia in famiglia

Un’esplorazione del quartiere tra genere, cultura e classi sociali — di Giovanna Luciano, Beatrice Chirio e Arianna Vitarella
Pubblicato il 18 giugno 2024


Abbiamo lanciato un sassolino metaforico nel giardinetto della rotatoria di piazza Montebello e, come la fisica ci insegna, basta questo piccolo gesto affinché si creino tutt’intorno cerchi concentrici da poter contemplare nella loro ordinaria straordinarietà. È successo un sabato di febbraio, durante il quale un gruppo di giovani curiose, munite di rudimentali lenti antropologiche, ha pensato di voler scoprire di più della vita delle famiglie con bambinə che abitano nel quartiere torinese di Vanchiglia.
Si tratta di un quartiere per famiglie? Questa è la domanda che ci siamo poste per la nostra breve indagine sul campo. Quale miglior modo per entrare in punta di piedi in questo contesto, se non quello di osservare i cerchi che si allargano nello spazio e nel tempo, nati da alcune semplici domande ad una mamma residente proprio in una delle case della rotatoria?
“Il parco è frequentato soprattutto con il bel tempo, dopo l’uscita dalle scuole vicine” ci spiega, motivando il perché all’ora di pranzo di un sabato ancora abbastanza freddo fosse ovviamente vuoto.
La signora ammette che non si tratta di un bel parco, si trova al centro di una rotatoria, circondato da cemento e con alcune panchine “frequentate da tossici e ubriaconi”. Ma è all’ombra di un cerchio di alberi ed è uno dei pochi del quartiere.
Percepiamo, ancora prima che ci venga rivelato dalla nostra interlocutrice, che si tratta di un contesto benestante, in cui lavorare è un modo per realizzarsi, non necessariamente un bisogno per vivere.

Il lavoro di cura
Ci racconta che non si vedono molti padri in questo giardino, è un contesto di cura dell’infanzia ancora piuttosto femminile: mamme, nonne, tutt’al più babysitter, si incontrano nel parco, magari dopo essere passate dalla gelateria o prima di fare un salto nel negozio di giocattoli nella piazza. Ci dice che si tratta di donne che non lavorano o fanno lavoretti “creativi” che gestiscono come vogliono. Secondo la nostra interlocutrice, poter svolgere lavori part-time artigianali è segno di benessere economico, ereditato nel corso del tempo dalle famiglie storiche del quartiere. In passato il quartiere Vanchiglia non era rinomato come oggi, vi erano per lo più persone di ceto sociale medio-basso, molti provenienti dal Sud Italia1V. Tucci, Stesse case, diversi abitanti: trasformazioni sociali e abitative nel quartiere Vanchiglia di Torino, in «Sociologia Urbana e Rurale», 126, 2021, le quali nel corso degli anni sono riuscite ad acquistare questi immobili. Ora la zona è molto ambita, soprattutto per la domanda elevata di camere in affitto da parte degli studenti. Secondo la nostra interlocutrice, è proprio grazie a queste entrate extra che le donne del quartiere possono farsi carico della cura dei figli.
La suddivisione dei ruoli di cura rimane legata alla divisione dei sessi, la donna si prende cura dei figli, della casa, dei familiari anziani e in difficoltà, mentre l’uomo lavora e si occupa del benessere economico della famiglia.

“La responsabilità della cura quotidiana  dei  figli  ricade  ancora  in  massima  parte  sulle  spalle della madre. L’impegno dei padri è discontinuo, spesso limitato alle attività meno gravose […]  frequentemente  esercitato  solo  in  caso  di  ‘necessità’.  È  solo  un’esigua minoranza di padri, infatti, che svolge quotidianamente tutte le mansioni necessarie alla cura primaria dei figli.”2M.L. Tanturri, Ruolo paterno e caratteristiche della coppia, in A. Rosina, L. L. Sabbadini (a cura di), Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, Roma, ISTAT-Collana Argomenti, 2006, p. 162.

Questa spartizione dei compiti appare come naturale, incarnata nei corpi delle donne e degli uomini. Da un punto di vista antropologico queste tendenze sono tutt’altro che naturali, derivano piuttosto da una lenta incorporazione di valori, pratiche e modi d’essere che vengono trasmessi fin dal momento della nostra nascita, se non addirittura prima.
Il sociologo Pierre Bourdieu parla di dominio maschile affermando che esso: “Legittima un rapporto di dominio iscrivendolo in una natura biologica che altro non è per parte sua se non una costruzione sociale naturalizza”3P. Bourdieu, Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998, p.32..
Nel contesto in cui viviamo il corpo biologico appare come profondamente connesso all’identità di genere e al comportamento che ci si aspetta di conseguenza. Ecco perché può apparire “naturale” il fatto che le donne siano più portate al ruolo di cura, in quanto considerate naturalmente e biologicamente materne e accoglienti, mentre questi ruoli appaiono non adeguati per un uomo.
Nonostante ci siano stati dei cambiamenti nel corso del tempo rispetto alla divisione dei compiti domestici e di cura, questa responsabilità ricade ancora in maggior parte sulle spalle delle donne4E. Truffelli, E., Differenze di genere e genitorialità: lo stile educativo dei padri e delle madri. Risultati di uno studio empirico, «Journal of Theories and Research in Education», 6(1), 2011.. Ciò che è emerso in questa piccola conversazione avuta con la nostra interlocutrice sembra confermare questa suddivisione.

Le persone meridionali nel quartiere
Durante la chiacchierata, l’intervistata condivide una storia di gentrificazione5Processo afferente la sociologia urbana, che può comprendere la riqualificazione e il mutamento fisico e della composizione sociale di aree urbane marginali, con conseguenze spesso non egualitarie sul piano socio-economico […] il risultato è la sostituzione della popolazione locale, che generalmente occupa un posto marginale nelle gerarchie sociali, con i nuovi “coloni” di fascia medio-alto borghese (fonte: Treccani).. Ci permette, con i suoi racconti, di viaggiare nel tempo e riportarci alle migrazioni interne di quegli anni, le stesse che oggi definiremmo “economiche”: i movimenti dal Sud al Nord Italia spinti da una ricerca di opportunità lavorative e da nuove aspettative di vita.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta Torino era una delle maggiori destinazioni per le migrazioni dal Sud Italia. Vanchiglia, insieme a Vanchiglietta, Porta Palazzo e Via Garibaldi, era uno dei quartieri in cui le persone provenienti dai paesi e dalle città meridionali riuscivano più facilmente a trovare alloggio6Meridionali a Torino, inchiesta televisiva diretta da Ugo Zatterin e Brando Giordani nel 1961, sul fenomeno dell’emigrazione dal meridione a Torino avvenuto negli anni ’60..
In Puglia risuonava la filastrocca “Torino, Torino, la bella città, si mangia, si beve, e bene si sta!”, da Siracusa partiva Il Treno del Sole, che riuniva persone da Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, raggiungendo Torino in ventitré ore7G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 92..
Le alte aspettative nei confronti delle opportunità lavorative nelle fabbriche venivano tradite, però, da diversi disagi. Chi emigrava dall’altra parte d’Italia spesso si scontrava non solo con la difficoltà del passaggio da piccoli paesi ad una grande città e la ricerca di lavori totalmente diversi da quelli svolti in passato, ma anche contro pregiudizi che rendevano impossibile sistemarsi sotto un tetto. Cartelli con su scritto “Non si affitta ai meridionali” erano frequentemente appesi sotto gli appartamenti torinesi, cercando di evitare inquilini con occupazioni poco stabili, famiglie numerose, e lingue poco comprensibili.
In una scena del documentario Rai del 1961, I meridionali a Torino, alcuni piemontesi intervistati esprimono la percezione che hanno di questi movimenti migratori. “Non ho pregiudizi, ma si preferirebbe avessero voglia di lavorare”, “Ho notato che quando un uomo importuna una ragazza, quasi sempre è meridionale”, “Sarebbe meglio fossero meno invadenti e più educati”, sono alcune delle risposte che vengono date quando viene chiesto che relazione ci sia con le persone meridionali in Piemonte. Dal punto di vista delle persone del sud invece, si comprende subito come i lavori svolti da loro non siano altro che “quelli che i piemontesi non vogliono più fare”, come racconta un intervistato palermitano.
Chi emigrava dal sud, agli occhi della città industriale, era indistintamente meridionale. Percependo il distacco da parte della popolazione locale, lucani, pugliesi, campani, siciliani, calabresi preferivano riunirsi specialmente tra loro, trovando in persone di regioni confinanti una qualche traccia di casa. Lo facevano per evitare di essere chiamati troppo spesso “napuli” o “terroni”, e per continuare a parlare con i loro accenti originari senza vergogna. I bambini nelle scuole adattavano facilmente il loro italiano ad un accento piemontese, nascondendo le loro originarie pronunce per evitare di essere immediatamente categorizzati8G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 212..
Una persona intervistata nel documentario dice: “Mai tornare giù, perché giù c’è la miseria”9Meridionali a Torino, inchiesta televisiva diretta da Ugo Zatterin e Brando Giordani nel 1961, sul fenomeno dell’emigrazione dal meridione a Torino avvenuto negli anni ’60., mettendo in luce la necessità di quegli anni di spostarsi per cercare un benessere per sé e per le famiglie. L’eterogeneità del quartiere vanchigliese è una testimonianza di questo percorso migratorio. È così che l’evoluzione del quartiere viene percepita, in parte, come costruita da diverse identità. La ricercatrice Violetta Tucci, in un suo articolo sulle trasformazioni sociali e abitative di Vanchiglia10V. Tucci, Stesse case, diversi abitanti: trasformazioni sociali e abitative nel quartiere Vanchiglia di Torino, in «Sociologia Urbana e Rurale», 126, 2021, p. 19, riporta un’intervista fatta ad un membro del comitato del quartiere, che viene percepito come un quartiere “per metà popolare”, in cui le classi sociali si tengono ben distinte: “prima c’erano i meridionali, poi gli immigrati, adesso gli studenti e poi c’è quella fascia medio-alta, con redditi medio elevati, i cosiddetti professionisti, che hanno sempre caratterizzato e abitato il quartiere”.
È curioso che adesso a Torino sia raro trovare persone che non abbiano origini familiari del Sud Italia. Uno sguardo al passato attento alla questione meridionale potrebbe allora, forse, suggerire delle coordinate per comprendere meglio la convivenza delle diverse identità nel quartiere oggi.

Il tipico stile vanchigliese
Nonostante le molteplici sfaccettature di un quartiere caratterizzato dalle differenze sociali, economiche e culturali delle persone che lo abitano, la nostra testimone privilegiata non ha difficoltà a sostenere che vi sia un “tipico stile vanchigliese”. Si tratta di quello che l’intervistata definisce in modo evocativo “stile aristo-freak”.Tratteggiarne le caratteristiche è complesso, data l’ampiezza dell’area semantica che il termine “stile” può ricoprire: dal modo di vestirsi a quello di parlare, dalle abitudini di cura a quelle di consumo. Ma vale la pena sforzarsi di individuarne quanto meno alcune sfumature, dal momento che tutti gli aspetti legati alla nostra rappresentazione esteriore (vestiti, accessori, modificazioni corporee che siano) possono essere considerati una sorta di “pelle sociale” e dunque in quanto tale possano avere una duplice influenza: sull’individualità e sulla dimensione sociale di ciascun essere umano11K. Tranberg Hansen, The World in Dress: Anthropological Perspectives on Clothing, Fashion, and Culture, «Annual Review of Anthropology», 33, 2004.. Il modo in cui si prepara e si mostra al mondo la propria immagine, infatti, non solo dice molto su come ci si desidera definire nella propria identità, ma riflette anche il modo in cui ci si pone nelle relazioni con gli altri.
Si delinea quindi nelle prossime righe un personaggio “tipo” che supponiamo possa vivere nel quartiere Vanchiglia, specificando che si tratta di un esercizio creativo e che l’individuo descritto non è né reale né realistico. È piuttosto un modello che può permettere di mettere a fuoco alcune caratteristiche del quartiere. Il nostro prototipo è una persona benestante, con un orientamento politico di centro sinistra, che ha cura del proprio abbigliamento, scelto e di qualità, ma comodo e talvolta di seconda mano, tendenzialmente colorato. È un consumatore attento alla genuinità dei prodotti che utilizza e per i quali è disposto a pagare di più, se necessario. Non sfoggia quindi un “consumo vistoso” , tipico di quelle classi più abbienti che fanno dello sfarzo il proprio tratto distintivo12T. Veblen, La teoria della classe agiata, Torino, Einaudi, 2007., ma al contrario predilige un consumo critico. Da qualcuno può essere talvolta accusato di “ipocrisia”, quasi a sostenere che sia proprio il suo benessere economico a permettergli di fingere che l’apparenza non lo interessi. Si aggira tra le vie strette del quartiere spaziando tra boutique di vestiti vintage, gelaterie artigianali, negozi di giocattoli rigorosamente di legno e montessoriani. Valorizza il piccolo artigianato rispetto alla grande produzione ed è attento a ridurre l’impatto del suo muoversi nel mondo. Che questa sia una consapevolezza vera e propria o un altro modo di praticare la propria distinzione sociale non è indagabile nella nostra breve ricerca e forse non è neanche particolarmente interessante, dal momento che in ogni caso anche una moda “può essere letta come il racconto del continuo processo di costruzione culturale delle identità”13C. Cassese, Il bello che piace. Antropologia del corpo in dieci oggetti, Brescia, Enrico Damiani Editore, 2023..

Conclusioni
La nostra interlocutrice durante l’intervista esprime chiaramente la complessità del suo rapporto con il territorio in cui vive, riflettendo le luci e le ombre che gli appartengono. 

Un momento del Laboratorio Scrivere l’Antropologia, AnthroDay Torino 2024.
Foto di Francesca Benna

Da una parte ci spiega che si possono trovare “scuole buone”, con programmi di “integrazione”, vita di quartiere, in cui le mamme possono incontrarsi all’uscita dei bambini e delle bambine, mentre adolescenti posso girare serenamente assaggiando l’autonomia senza correre grandi pericoli, se non qualche vetro di bottiglia per strada. Dall’altro il disagio acustico notturno, la mancanza di spazi verdi, le case umide e senza ascensori, poco adatte a famiglie “mature” che preferirebbero una vita più comoda.

Una complessità intrinseca ad ogni contesto, nel momento in cui lo sguardo venga poggiato leggermente oltre l’apparenza e riveli i chiaroscuri presenti in qualunque cosa. Questo, in effetti, è ciò che l’esercizio antropologico di questa giornata ci ha concesso: non solo di esplorare la vita e la storia di un quartiere della “nostra” città, ma soprattutto di andare sotto la superficie, concedendoci di scrostare la patina di noncuranza quotidiana, per tentare di sperimentare curiosità, meraviglia e stupore nell’osservare l’acqua che si increspa in modo ordinato, attorno ai giardinetti nella rotonda di Vanchiglia.


Riferimenti:

Bourdieu P., Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998;

Cassese C., Il bello che piace. Antropologia del corpo in dieci oggetti, Brescia, Enrico Damiani Editore, 2023;

Fofi G., L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964;

Tanturri  M.L., Ruolo paterno e caratteristiche della coppia, in A. Rosina, L.L. Sabbadini (a cura di), Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, Roma, ISTAT-Collana Argomenti, 2006;

Tranberg Hansen, K., The World in Dress: Anthropological Perspectives on Clothing, Fashion, and Culture, «Annual Review of Anthropology», 33, 2004;

Truffelli, E., Differenze di genere e genitorialità: lo stile educativo dei padri e delle madri. Risultati di uno studio empirico, «Journal of Theories and Research in Education», 6(1), 2011;

Tucci V., Stesse case, diversi abitanti: trasformazioni sociali e abitative nel quartiere Vanchiglia di Torino, «Sociologia Urbana e Rurale», 126, 2021;

Veblen T., La teoria della classe agiata, Torino, Einaudi, 2007;

Zatterin U., Giordani B., Meridionali a Torino, inchiesta televisiva sul fenomeno dell’emigrazione dal meridione a Torino negli anni ’60, 1961.