Raccontare le culture sui social

Un mercato che cresce ed eccede in stereotipi — di Marina Lombardi
Pubblicato l’11 giugno 2025


Cosa significa raccontare l’altrə? Che cosa implica? Quali dinamiche regolano la rappresentazione delle alterità? In che modo la narrazione restituisce – o sottrae – ai protagonisti?
Raccontare gli altri è qualcosa a cui assistiamo o che facciamo sempre più spesso. La costruzione dell’altrə è un processo quasi spontaneo ma costante, amplificato dall’incessante circolazione di immagini e racconti sui social media. Ogni scroll ci espone a frammenti di vite lontane, raccontate attraverso reel di viaggio, reportage visivi e rappresentazioni digitali. Guardiamo tutto e tutti, ma come li vediamo? E, soprattutto, come vengono narrati?

Se è vero che il racconto è una pratica comune in cui siamo immersi da sempre, è vero anche che nel mondo contemporaneo, grazie alla velocità fornita dalla tecnologia, le informazioni di altre persone, vicine o lontane, risultano accessibili in ogni istante, anche senza cercarle. In un periodo storico segnato dalla sovrabbondanza informativa o meglio – information overload1I quali sostengono che seppur tempestati di informazioni ne assorbiamo solo una percentuale bassissima a livello cosciente (G. Ducci, Relazionalità consapevole, Milano, FrancoAngeli, 2017). – i flussi di dati a cui siamo soggetti non solo hanno la forza di influire sull’attenzione, ma anche quella di plasmare le nostre percezioni. Da un punto di vista antropologico, il pericolo è rappresentato anche dalla riproduzione involontaria di modelli narrativi dominanti, che finiscono per fissare le differenze culturali in immagini troppo rigide e spesso, stereotipate.

Intorno alla metà del XIX secolo in Giappone – e in parte dell’Asia – si pensava che la fotografia potesse rubare l’anima. Per questo, ogni volta che i giapponesi vedevano qualcuno che provava a fotografarli tentavano di nascondersi al meglio coprendosi volto e capo. Lo ha raccontato, tra gli altri, Tiziano Terzani – “esploratore”, giornalista e scrittore, narratore di storie e reporter di guerra – nel suo libro “Un Indovino mi disse”. Un elaborato denso di concetti che oscilla tra il reportage giornalistico e l’analisi critica volta alla decostruzione di narrazioni spesso dominanti. Proprio in questo scritto racconta le sue esperienze in lungo e in largo per l’Asia dove, con la sua Leica analogica, è pronto ad imprimere qualche ricordo da portare con sé.
Tra le sue parole, la rappresentazione dell’altro assume una forma non giudicante, proprio per il tentativo di raccontare la stessa storia da più punti di vista senza trarre conclusioni generali. Forse in quel periodo, le categorie ideologiche e gli schemi narrativi che ben presto avrebbero cristallizzato l’altro in un’immagine esotica e stereotipata, erano ancora in fase di costruzione nell’immaginario occidentale. O forse, perché è possibile raccontarlo con  uno sguardo che prescinde da gerarchie, anche quando la distanza culturale appare insuperabile.

Facendo un salto nel presente, oggi questo stesso impulso a documentare l’altrove si manifesta nelle forme più disparate: il resoconto di un viaggio, una narrazione digitale, un carosello di immagini sui social. Ma la questione resta aperta. La rappresentazione dell’altro è uno spazio di incontro autentico o solo un nuovo dispositivo di riproduzione dello sguardo egemonico? Tutto sembra raccontare esperienze di viaggio e YouTube prima e poi Instagram e TikTok, hanno fornito la possibilità a chiunque di raccontare il mondo e il modo in cui lo vivono. Di farsi portatori e portatrici di idee, immagini, notizie e riflessioni culturali.
Immagini e video di culture e luoghi lontani risultano così alla portata di chiunque. Oggi più che mai, ad esporre l’altro, sono turisti, influencer, youtuber, fotografi e molte altre figure professionali e non, oltre ai canali informativi più tradizionali come programmi TV, giornali o riviste. Un compito a cui l’antropologia si dedica fin dai suoi albori. La disciplina ha percorso un’evoluzione di consapevolezza che l’ha condotta a riflettere sulla responsabilità di raccontare le culture e i suoi componenti. Attraverso il tentativo di sospensione del giudizio, puntando ad abbattere ogni barriera culturale e ad andare oltre ogni preconcetto. Gli antropologi mettono così in atto metodi di ricerca, studio, riflessione e osservazione partecipante con approccio emico (analizzando la realtà dal punto di vista dell’altro) al fine di raccontare una cultura nella sua complessità.

Youtube, dicembre 2024
Sugli schermi di migliaia e migliaia di persone appare un viaggio in Tanzania alla ricerca del significato della felicità svolto da un famoso youtuber. Si reca nel paese per intervistare quella parte di popolazione affetta da albinismo. Un luogo, in cui vigono pratiche culturali e stregonesche che convivono con dinamiche criminali e condizioni sociali molto complesse, raccontato tramite un video. In questo scenario gli albini sono costretti a rifugiarsi, oltre che lontano dal sole, anche lontano dalle persone perché in costante rischio di diventare vittime di rapimenti e omicidi, con la conseguente asportazione di organi, rivenduti poi al mercato nero. Una pratica, spiega lo youtuber, “disumana, qui il 50% della popolazione crede ancora in queste pratiche di stregoneria, a causa chiaramente dell’ignoranza, della mancanza di istruzione e della povertà, motivo per cui queste pratiche sono ancora radicatissime in tutta la popolazione”.Un’affermazione piuttosto forte e che, per chi si occupa di studiare le culture, non può che lasciare spazio ad ulteriori considerazioni che scavano nel profondo per spezzettare e ricostruire l’immagine data agli spettatori.

La spiegazione fornita, seppur indubbiamente in buona fede e con le migliori intenzioni, non tralascia né la stereotipizzazione né la generalizzazione di una pratica tanto complessa quanto radicata, che va oltre la sola stregoneria. Il che comprende una serie di pratiche culturali che si mescolano con attività criminali, sviluppate a loro volta all’interno di un ambiente sociale complesso e culturalmente molto distante dalle percezioni “occidentali”. In questo contesto, la stregoneria evocata dallo youtuber viene interpretata come un fenomeno legato all’ignoranza e alla povertà. L’interpretazione trascura però l’esistenza di dinamiche economiche e criminali che rivestono un ruolo centrale nella questione. Ancora una volta, la dinamica innescata è quella del racconto di “loro”, da un solo punto di vista e filtrato dalle lenti culturali a cui si è sottoposti. Dare una motivazione di ciò che accade nel mondo – in questo caso in Tanzania – si esprime così attraverso un approccio unidirezionale ed etnocentrico, che esclude lo studio approfondito delle dinamiche più intrinseche.

Narrazioni di questo tipo continuano a persistere ovunque e contribuiscono a rafforzare  un senso di dominanza, in cui si le dinamiche egemoniche, continuano a tradursi in comportamenti razzisti e razzializzanti come quelli a cui assistiamo quotidianamente anche nelle notizie di cronaca. Tutto ciò non esclude la buona fede di chi agisce, ma piuttosto dovrebbe evidenziare la necessità di interrogarsi e mettere in discussione il racconto dell’altro, che avviene troppo spesso attraverso una lente dominante, con l’obiettivo di riflettere sul contrastare le narrazioni stereotipate delle vite e le appartenenze dii altre persone.Per raccontare una cultura così diversa e per comprenderla, è necessario qualcos’altro, qualcosa di più, come spiega il filosofo britannico Peter Winch “Per studiare seriamente un altro modo di vita è necessario cercare di estendere il nostro mondo, e non semplicemente portare l’altro mondo entro i confini già esistenti del nostro“. Una spiegazione diretta e chiara ma anche complessa, ancora all’alba di un mondo in costante evoluzione. Un mondo che sarebbe ben presto diventato un luogo dominato dal sovraccarico cognitivo capace di disorientare e rendere dipendenti. È così che ancora una volta, oltre l’epoca post-coloniale, l’interiorizzazione concettuale si propaga attraverso l’immagine stereotipata di loro, poveri e senza istruzione, e viene trasmessa con una superiorità che l’occidente bianco ha ormai interiorizzato anche nei comportamenti caritatevoli.

Dare contezza dell’osservazione, la restituzione come forma di equità

Membri della spedizione antropologica allo Stretto di Torres del 1898. In piedi (da sinistra a destra): W.H.R. Rivers, C.G. Seligman, S.H. Ray, A. Wilkin. Seduto: A.C. Haddon.
(Cambridge University Torres Straits Expedition, Public domain, via Wikimedia Commons)

È il 1898 e un gruppo di antropologi dell’Università di Cambridge si reca nello Stretto di Torres – tra l’Indonesia e l’Australia – formando per la prima volta una vera e propria spedizione antropologica. Sotto la direzione di Alfred Cort Haddon, zoologo di formazione, fu realizzato un lavoro pionieristico di documentazione visiva con le prime riprese cinematografiche sul campo. L’introduzione del cinema nell’antropologia apriva nuovi orizzonti per lo studio delle culture, consentendo di registrare rituali, comportamenti e dinamiche sociali in un modo che fino ad allora non era mai stato possibile. Un approccio, che nonostante le difficoltà tecnologiche dell’epoca, segnò un cambiamento significativo nel modo di fare ricerca.
In questo contesto, l’antropologia visiva si fa portavoce di una nuova prospettiva, la restituzione tramite le immagini. Il tentativo è quello di analizzare la complessità delle culture altre attraverso fotografie e filmati capaci di rappresentare ciò che le parole non riescono ad esprimere. Un nuovo metodo, più potente che mai. Ciò non è però privo di difficoltà. Ogni immagine scattata, ogni filmato realizzato, porta con sé un’intenzione, una costruzione narrativa. È compito dei ricercatori decodificare queste immagini, analizzandole per coglierne i significati e legarli al contesto culturale e sociale di riferimento, ma con interrogativi da cui non è possibile prescindere.Il focus a questo punto è proprio la restituzione delle immagini ai soggetti che sono stati filmati o fotografati. Se, da un lato, la ricerca antropologica si sforza di restituire il senso di un dialogo interculturale, dall’altro, è fondamentale che il soggetto protagonista possa partecipare attivamente a questo processo, avendo la possibilità di rivedere, commentare e correggere la propria rappresentazione. L’idea di una reciprocità interpretativa2C. Pennacini, Filmare le culture, Roma, Carocci, 2005. è quindi nel cuore dell’antropologia visiva, in cui l’immagine non è solo un prodotto del ricercatore, ma un punto di partenza per un dialogo ed una negoziazione continua.

Come rendere possibile questa reciprocità? Chiedere all’altro di partecipare al processo di interpretazione per costruire una rappresentazione equa e più completa possibile è, ad esempio, una delle azioni primarie. In questo senso, l’esito dell’approccio antropologico si realizza anche grazie alla creazione di uno spazio per il confronto, dove le culture rappresentate possono scrivere la propria storia, correggere stereotipi e dare un nuovo significato alle immagini che li riguardano.
Questo processo non riguarda solo l’analisi visiva, ma implica anche una riflessione sulle pratiche etiche con cui ci approcciamo alla rappresentazione delle culture. Ad esempio, il turismo che cerca di “osservare” popolazioni indigene o tradizionali, (crociere, tour, escursioni in territori abitati da popoli indigeni) hanno spesso trasformato queste comunità in semplici attrazioni turistiche.

Tuttavia, molte iniziative3Tra le altre “European Tourism – A European Strategy for More Sustainable and Competitive Tourism”, che mira a promuovere il turismo che sostiene le comunità locali, preserva il patrimonio naturale e culturale e contribuisce alla creazione di posti di lavoro green. oggi cercano di promuovere un turismo più sostenibile, rispettoso e attento alle esigenze delle comunità locali, evitando pratiche che possano sembrare una mera “esibizione” o sfruttamento, anche se, spesso, con risultati discutibili. C’è da considerare che c’è anche una reazione da parte delle comunità autoctone a questo fenomeno fin dal suo principio, ossia l’appropriazione di queste forme di “turistificazione” di cui cominciano loro stessi a farsi autori (si pensi alle maschere dogon che a un certo punto cominciano a essere spontaneamente create non più con finalità rituali ma proprio per i turisti). È un fenomeno complesso che forse qui non si può approfondire, ma forse vale la pena almeno accennare al fatto che si tratta di una dialettica e non c’è più un “noi” e un “loro” nemmeno in queste forme del mercato.
Si tratta di un fenomeno che difficilmente rientra nella dicotomia bene-male, ma rappresenta uno scenario più complesso che oscilla tra le aspettative dei turisti e le necessità delle comunità ospitanti. Queste ultime possono trovarsi in posizioni ambivalente: da un lato, i benefici economici derivanti dal turismo sostenibile possono migliorare le condizioni di vita, generare posti di lavoro e dare visibilità alle tradizioni culturali; dall’altro, c’è il rischio che queste stesse comunità possano essere ridotte a mere attrazioni turistiche, costrette a offrire una versione stereotipata della propria cultura per soddisfare le aspettative dei visitatori. Questa dialettica è aggravata dal fatto che, in un contesto globale, non esistono più confini netti tra “noi” (in quest’ottica turisti) e “loro” (le comunità locali). Le stesse comunità che possono essere oggetto di un turismo che sfrutta le loro tradizioni, sono a volte esse stesse protagoniste di un fenomeno di “glocalizzazione”, ossia di una mescolanza tra il locale e il globale. In altre parole, anche le comunità locali non sono più entità statiche e separate, ma spesso parte integrante di un mercato turistico interconnesso con il resto del mondo.

Il potere della rappresentazione visiva dell’altro: un principio centrale nella costruzione delle percezioni culturali e sociali
È il 1895 e a Parigi l’Expo svolge un ruolo determinante nel plasmare la visione di questo altro. Durante l’esposizione universale di quell’anno, popolazioni indigene provenienti da colonie lontane sono esibite come oggetti di curiosità, ridotte a tipi esotici da osservare. In un caso emblematico, il medico francese Félix Louis Regnault, in occasione della mostra sull’Africa occidentale, riprese i movimenti corporei di alcuni esponenti di queste popolazioni, con l’intento di “dissezionare” la loro evoluzione fisica, secondo un’idea che rifletteva le teorie evoluzionistiche del tempo.

Foto di RitaE (utilizzabile gratis secondo la Licenza per i contenuti di Pixabay)

Tuttavia, queste pratiche divulgate nel tempo hanno anche avuto conseguenze sulla percezione collettiva delle razze e della diversità culturale. Le immagini continuano quindi ad essere uno strumento potente di mediazione tra culture oltre che un veicolo di discussione politica. La rappresentazione visiva, seppur lontana dall’essere neutra, è ancora un terreno di lotta per la riconquista del potere e dell’autodeterminazione.
Provate ad immaginare una ripresa video dentro un asilo di una qualsiasi città italiana, o in un parco giochi dove bambini e bambine italiani giocano tra loro. I genitori hanno firmato il consenso sulla privacy per farli riprendere? E se invece parliamo di adulti, ci è stato dato il consenso di registrare e poi pubblicare i nostri contenuti? Non avere rete internet o non essere presenti sui social media non significa necessariamente essere invisibili.
Al contempo, è necessario riflettere anche sul senso del significato di consenso: «Posso farti una foto?» «certo»: ho spiegato le mie intenzioni su quella foto? Ho spiegato che verranno pubblicate su una piattaforma che farà il giro del mondo? I miei interlocutori hanno capito l’uso di quelle immagini? La legislazione sulla privacy è una delle più sentite in Europa, ma per chi vale? Esiste un doppio standard anche rispetto alle immagini?
Proviamo a pensare ad esperienze di viaggio o di vacanza in luoghi comunemente definiti esotici o etnici, solo perché remoti o lontani da noi. Tra i più quotati negli ultimi anni, i paesi dell’Africa sub sahariana e del sud est asiatico, dove villaggi turistici, safari nel deserto o tour nei villaggi autoctoni portano all’incontro con bambine e bambini di città o scuole, che puntualmente vengono fotografati e poi pubblicati sui social. Fotografie di sorrisi o lacrime in primo piano rese pubbliche al mondo intero. Ma c’è stato un consenso? Che tipo di consenso? Questo potrebbe succedere  in una scuola di Milano, o in un parco giochi di una zona periferica in Italia? Ribaltare le situazioni è spesso un modo efficiente di stimolare la nostra riflessione. Lo scenario dominante di queste rappresentazioni è il propagarsi di un noi che osserviamo loro, e che poi li raccontiamo, a modo nostro. E se in queste rappresentazioni non fosse cambiato molto rispetto al passato, se non le modalità di propagare una nuova forma di colonialismo sull’altro? A sollevare la questione è, tra gli altri, Viviano Domenici nel suo libro Uomini nella Gabbie in cui afferma che «l’esposizione coloniale del selvaggio non è mai davvero finita».

Qual è il fine del mio racconto?
Nell’eccesso di racconto dei luoghi e delle culture che in Internet sta prendendo sempre più campo, un’altra domanda fondamentale è forse quella che ci interroga sui perché del nostro racconto. Va raccontato tutto? A che scopo? Entrare all’interno di abitazioni altrui di un quartiere povero di Tokyo per far sapere che la povertà esiste anche in quella parte di mondo, è sufficiente per esporre al mondo la dignità di chi vive in condizioni di difficoltà o disagio sociale? Quanto il nostro intervento è realmente necessario e può aiutare? Sarebbe forse utile a questo punto riflettere sulla risposta “per sensibilizzare”.
Non porsi limiti nel mostrare l’altro in condizioni di disagio psichico, sociale, medico e renderlo al contempo riconoscibile da chiunque è di per sé una forma di potere. Ripensare la responsabilità del mostrare categorie di persone a cui si “vuole dare una voce” è direttamente proporzionale alla supremazia tra classi, alla presa di potere del più ricco, all’egemonia culturale occidentale che racconta ancora il mondo a suo piacimento senza curarsi del potere che ha tra le mani. Antonio Gramsci affermava che “la conquista dell’egemonia culturale è precedente a quella del potere politico e questa avviene attraverso l’azione concertata di intellettuali organici infiltrati in tutti i mezzi di comunicazione, di espressione e nelle università”. Una considerazione da cui non si può prescindere nello sfatare il mito del “dover dare voce”, che ci mette già di per sé in una posizione di vantaggio, ma che nella stragrande maggioranza dei casi, viene ricorrentemente associata ad una mediazione super partes, che contribuisce a rende l’altro l’incarnazione di uno stereotipo costruito e co-costruito dai più forti. Così, gli oppressi resteranno oppressi, e i forti, resteranno i forti.Raccontare le culture è oggi una dimensione sempre più conosciuta che rappresenta l’immagine di uno stereotipo sempre più marcato: quello del travel blogger o del nomade digitale. Colui o colei che si guadagna da vivere in modi che le prime spedizioni di antropologi visuali non avrebbero mai immaginato. È in questo contesto che nozioni quali turismo e cultura sono sempre più frequentemente interconnesse, contribuendo ad un discorso pubblico in cui espressioni come “scambio culturale” e “multiculturale” sono sempre più diffuse. Tuttavia, nel linguaggio corrente, fatica ancora ad emergere una riflessione critica che integri le dimensioni di potere e supremazia, concetti che restano scarsamente esplorati all’interno di questo universo semantico e ideologico.


Riferimenti:

Domenici V., Uomini nella Gabbie: dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica, Milano, Il Saggiatore, 2015;

Gramsci A. (1932-1933), Quaderno 11 (XVII). Introduzione allo studio della filosofia, in Quaderni del carcere (1ª ed. originale: 1948-1951);

Pennacini C., Filmare le culture, Roma, Carocci, 2005;

Winch P., Undestanding a Primitive Society, «American Philosophical Quarterly», 1 (4), 1964.