Ripensare il maschile oltre la “crisi” — di Michela Cavenaghi
Pubblicato il 18 febbraio 2023 • Aggiornato il 21 febbraio 2023
Un luogo comune piuttosto in voga oggi, dai social network fino agli spazi della politica, denuncia una certa “crisi del maschio”, non senza toni allarmistici e nostalgici. Secondo alcuni, gli uomini sarebbero frustrati dalla perdita di ruolo, messi all’angolo da un femminismo aggressivo ed escludente, minacciati da ogni parte da modelli di mascolinità fluida e da donne sessualmente disinvolte.
Senza dubbio gli uomini di oggi sono testimoni di profonde trasformazioni sociali, sconosciute ai loro padri o nonni, e i modelli maschili del passato sembrano inadatti a dare una risposta alle nuove domande di senso.
Consideriamo, ad esempio, il mondo del lavoro: se fino a qualche decennio fa il lavoro forniva lo spazio per eccellenza della definizione della propria identità, perché era sicuro, indeterminato, e poteva restare lo stesso per tutta la vita, oggi non è più così. Essere uomini e buoni padri in passato passava anche attraverso la prerogativa di “portare a casa il pane”, ma con un mercato del lavoro sempre più precario e intermittente. Il solo stipendio maschile non basta più per il sostentamento dell’intera famiglia, e le donne competono con gli uomini nel lavoro extradomestico1Nel lavoro extradomestico le donne sperimentano il conflitto fra aspettative tradizionali di genere (essere buone madri) e i nuovi modelli di autorealizzazione lavorativa e successo personale (essere “donne in carriera”): uno standard molto neoliberista e difficilmente raggiungibile di efficienza su tutti i fronti, che si traduce spesso in una grande mole di stress e una profonda colpevolizzazione..
Alla precarietà del lavoro, che dunque non è più né solo maschile né sicuro, si aggiunge la laicizzazione della società e la rivoluzione sessuale: il gioco della seduzione è profondamente mutato, i ragazzi di oggi si misurano con ragazze che mettono in campo il loro desiderio, fanno il primo passo, e non spetta più solo a loro scegliere, ma sempre più spesso sono scelti. Non solo, fino a non molto tempo fa il patriarcato, cioè l’ordine simbolico basato sul potere del padre e uomo, era persino tutelato dalla Legge. Ad esempio, il cosiddetto delitto d’onore sancito nell’art. 587 del Codice Rocco (di epoca fascista), prevedeva uno sconto di pena per colui che avesse assassinato coniuge, figlia o sorella infedele, nello “stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia” . Fino al 1981, data dell’abolizione, lo Stato dunque giustificava parzialmente un omicidio, assecondando implicitamente l’idea che l’onore maschile avesse qualcosa a che fare con il possesso, la capacità di controllare la propria donna, e, se offeso, poteva e doveva essere restituito pubblicamente per non “perdere la faccia”.
Anche in famiglia, i giovani padri di oggi non sembrano più riconoscersi nel modello di pater familias del passato, gerarchico e distaccato, che ricorreva alla violenza come “strumento pedagogico”. Essi ricercano sempre più una relazione intima e partecipe nell’esperienza educativa dei figli, anche se media e società in generale sembrano faticare a registrare questo cambiamento. La narrazione che la stampa riserva ai padri accudenti, è infatti quella del baby-sitter, del super-papà o del “mammo” (sigh!) ricorrendo alle categorie della femminilizzazione e perdita di autorevolezza. Il “mammo” non è un genitore pienamente impegnato nella gestione materiale e nell’investimento affettivo verso i figli, ma una sorta di aiutante della madre, tenero e un po’ impacciato, che cerca di cucinare e cambiare pannolini in attesa che la moglie torni dal lavoro.
È così che David Beckham, da campione di fama mondiale e sex symbol, è diventato un “calciatore in pensione che ha appeso le scarpette al chiodo” a cui tocca occuparsi dei figli quando la moglie è impegnata per lavoro, o Fedez “fa il baby sitter a Milano” mentre “Chiara Ferragni vola a New York e si trasforma in Catwoman” (titolo infelice apparso su un noto quotidiano nazionale, costretto poi a modificarlo in seguito alle ire di Twitter).
In questo senso, descrivere le nuove sensibilità e desideri maschili in termini di “crisi” è controproducente e regressivo, predetermina l’esperienza vissuta, veicolando l’idea che “cambiamento” sia necessariamente sinonimo di “perdita” o di “minaccia”. È evidente che ci troviamo di fronte a un vuoto di riferimenti dove il modello del passato è inservibile, e uno nuovo non si è ancora formato. Non si tratta certamente di un passaggio pacificato o indolore, ma la rottura con l’ordine del passato è inevitabile e “non sarà la nostalgia della Legge paterna perduta a salvarci” (Ciccone, 2019, p. 7). Perché dovremmo rimpiangere il modello del pater familias che ha incasellato l’esperienza della paternità in ruoli rigidi e definiti? Chi ha stabilito che all’uomo spettasse in toto il ruolo di pilastro economico della famiglia, mentre la donna era la “regina del focolare”? Che cosa avrebbero a che fare l’onore maschile con la pubblica piazza e la fine di una relazione?
Per cercare una risposta a queste domande, è utile appellarci alla filosofa Judith Butler e a ciò che lei definisce “la performance del genere”. A differenza del sesso, il genere non è un dato anatomico, ma una costruzione sociale che viene messa in scena pubblicamente e in maniera ripetuta, fino al punto di renderla qualcosa di “naturale”: in altre parole, una norma sociale. Apprendiamo questa abitudine fin da piccoli/e, la mettiamo in atto a nostra volta, fino a darla per scontata. Inoltre, il genere produce un ordine binario (uomo vs donna) attribuendo ad ognuno dei due termini caratteristiche contrapposte, che si ritengono appropriate e legittime per l’uno o per l’altro. Così, si dice che l’uomo sia naturalmente più razionale e determinato, mentre la donna è sentimento, empatia, istinto curante e materno. L’uomo è forte, aggressivo, sportivo, pratico e capace, adatto ai luoghi della politica, della scienza e della sfera pubblica, ma anche più infedele, insensibile e con un istinto sessuale irrefrenabile. Queste caratteristiche naturalizzate non sono libere da aspettative di genere che, anche per il maschile, condizionano e spesso impoveriscono le vite degli uomini. Come accennato sopra, oggi più che mai è urgente decostruire questi stereotipi ed estrarre dall’invisibilità le dimensioni di violenza e frustrazione che si nascondono dietro il c.d. “privilegio maschile”. L’antropologia può fornire gli strumenti necessari a questo scopo.
È sufficiente dare un rapido sguardo alla lingua italiana per prendere consapevolezza della pervasività degli stereotipi che abbiamo “naturalizzato”. Nel vocabolario, ad esempio, il termine virilità, è sinonimo di potenza fisica, specialmente riferito alla sfera sessuale, mentre si userà virile per una persona forte, coraggiosa e responsabile. Al contrario, femminuccia indica un bambino pauroso ed impressionabile, un uomo debole o vile, mentre effemminare, è sinonimo di rammollire (Zingarelli, 2006). È evidente come nel nostro linguaggio il maschile coincida con il regno del possesso, della determinazione e della forza, mentre al femminile sono attribuite caratteristiche di passività, debolezza, fragilità.
Ma se si sgrida un bambino che piange dicendogli di “fare l’uomo” e di asciugarsi le lacrime perché “gli uomini non piangono”, o se si incoraggia un ragazzino timido a “non fare la femminuccia”, che idea di uomo e di donna si contribuisce a costruire nella mente di questi giovani uomini? Se un adolescente recepisce il messaggio che i sentimenti, la fragilità, la paura, la cura e l’amore per il proprio corpo faranno di lui un effemminato (o peggio, un gay!), possiamo legittimamente domandarci come, da adulto, riuscirà a dialogare serenamente con la sua emotività, accettare il fallimento, essere empatico e collaborativo nel lavoro domestico e di cura (attività che dalla notte dei tempi sono bollate come femminili). Non si intende ovviamente giustificare comportamenti insensibili o sessisti, ma prendere atto criticamente che la socializzazione al genere nella nostra società espone gli uomini fin da piccoli a messaggi contraddittori e frustranti che creano non poca pressione psicologica da adulti, tanto che si parla di “grande trappola”.
Un altro elemento oggetto di un’attenzione morbosa e assillante per la costruzione della mascolinità nella nostra società è il pene maschile e, in generale, tutto ciò che ha a che fare con la sessualità. Appelliamoci ancora una volta al linguaggio: una donna “con le palle” è autorevole e rispettata, mentre un “palle mosce” è un tipo poco deciso, che si esorta a “tirare fuori gli attributi”. Allo stesso modo, per un’attività portata a termine con decisione e successo, si dirà che è stata realizzata “a ca**o duro”. È altrettanto diffuso fare riferimento al membro maschile per insultare o sminuire l’interlocutore, specialmente se si tratta di qualcuno con un’indole aggressiva, come se questo avesse naturalmente qualcosa a che fare con le dimensioni dei suoi genitali. L’illustrazione postata sul profilo Facebook del noto giornalista Saverio Tommasi con annesso commento “La trovo semplicemente perfetta. No alle guerre” [link] ne è un ottimo esempio: la violenza e la prepotenza di Putin troverebbero un’ovvia spiegazione nelle piccole dimensioni del suo pene.
Queste considerazioni sono profondamente rilevanti perché ci permettono di comprendere in che assurda misura nella nostra cultura il pene maschile sia centrale per definire la forza, l’autorevolezza e la maschilità. Ma questo modello di virilità è profondamente svilente e ha lungamente alienato gli uomini dal rapporto con il loro corpo, ha rimosso la complessità delle loro emozioni, ha schiacciato la sessualità maschile fra la paura dell’impotenza e l’immagine del dominio, e ha dipinto il desiderio maschile come qualcosa di predatorio e incontrollabile. Non possiamo fare a meno di domandarci come possa un giovane uomo coltivare un rapporto sereno con il suo corpo e la sessualità, lontano da schemi di comportamento preconfezionati e da ansie performative.
Se, nel mondo di oggi, questo modello di maschilità sembra non reggere più, possiamo compiacerci perché siamo ben lontani dalla “crisi” e dalla perdita. Il cambiamento non è una minaccia per gli uomini, ma il segno evidente della precarietà del modello patriarcale nel fornire libertà e dignità alle vite di uomini e donne.
Dire che “non ci sono più gli uomini di una volta”, non è un adagio nostalgico, ma una promessa di maggiore libertà per tutti e tutte, è la prospettiva di una società dove è possibile vivere la propria paternità in maniera plurale e affettuosa, senza per questo essere sminuiti nella propria mascolinità. La sfida rimane tuttavia quella di costruire nuovi modelli e, soprattutto, nuovi linguaggi perché, purtroppo, finché la retorica imperante è quella della crisi, l’esperienza del cambiamento non potrà che essere vissuta in questi termini.
Riferimenti:
Butler J., Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari, Laterza, 2013;
Ciccone S., Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019;
Madonia M., A 40 anni dall’abolizione del delitto d’onore non abbiamo ancora cambiato la cultura che lo ha generato, «The Vision», 1° dicembre 2021, <https://thevision.com/attualita/delitto-onore/>;
RepTV, La deputata di Fdl contro il gender fluid di Rosa Chemical a Sanremo: “Propaganda a senso unico”, 2 febbraio 2023, <https://video.repubblica.it/dossier/festival-sanremo-2023-video/la-deputata-di-fdl-contro-il-gender-fluid-di-rosa-chemical-a-sanremo-propaganda-a-senso-unico/437302/438266>, (ultima consultazione 10/02/2023);
Vanity Fair – Redazione People, David Beckham, una settimana da «mammo», 11 settembre 2013, <https://www.vanityfair.it/people/gossip/13/09/11/david-beckham-figlia-harper-new-york-victoria-sfilata-foto- gossip?refresh_ce=>, (ultima consultazione 10/02/2023).