L’utopia della bianchezza italiana

— di Giovanna Luciano
Pubblicato il 15 maggio 2023 • Aggiornato il 16 maggio 2023


In questo articolo vorrei trattare un tema che mi tocca profondamente, ovvero l’analisi dell’identificazione dell’italianità con la bianchezza e dell’effetto che ha sulla vita delle persone non bianche. È una questione che mi sono posta spesso, fin da piccola, ma che non ero mai riuscita a comprendere fino in fondo, e che forse non smetterò mai di rincorrere.

Author Igiaba Scego speaking at Festivaletteratura 2008
Foto lettera27, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

Da sempre, molte delle persone che incontro per la prima volta, affermano che il colore della mia pelle è diverso da quello che dovrebbe essere, e ogni volta mi ritrovo a dover smentire le loro supposizioni riguardo le mie origini. Mi chiedono: “Ma come sei scura! Che origini hai?”, rimangono sorpresi dalla mia risposta, ovvero che sono italiana, nata in Italia, da genitori italiani che a loro volta sono figli di italiani.
Per diverso tempo, ho cercato di scovare una qualche provenienza straniera che giustificasse il colore della mia pelle, ma fino a dove sono riuscita a risalire – fino ai miei trisnonni – non ho trovato altro che italiani. Solitamente mi trovo costretta a proseguire la conversazione affermando di avere origini calabresi, questo sembra bastare per acquietare l’iniziale scompenso provato da chi mi sente dire “sono italiana”. Sono abbastanza sicura di non essere l’unica persona di origine meridionale a cui vengono poste queste domande, ma comunque vorrei affrontare questo argomento come persona non bianca, non “normale”, perché è così che mi sono sentita molto spesso nella mia vita.
Tantissimi episodi mi sono tornati alla mente dopo aver letto i testi: “Future. Il domani narrato dalle voci erranti”, di Igiaba Scego, e “L’unica persona nera nella stanza”, di Nadeesha Uyangoda, due scrittrici, che da tempo cercano di dare voce e spazio alle loro esperienze di donne nere in Italia. Sono consapevole del fatto che la mia è una storia molto diversa, privilegiata, in quanto cittadina italiana alla nascita e di “sangue”, tuttavia ho riscontrato delle similitudini tra i loro vissuti e i miei.
Una domanda mi assilla quando mi capita di fare esperienze simili: perché le persone italiane sono convinte che gli italiani “veri” siano bianchi?

La mia esperienza
Quando ero una bambina, alle elementari, avevo un compagno di classe nato in Marocco, con la pelle chiara e i capelli rossi; ecco che automaticamente la mia mente associa i marocchini alla pelle bianca, ma dopo poco tempo ho scoperto che questa supposizione era errata agli occhi degli altri. “Marocchina di merda!”, “negra!”, questi erano gli appellativi usati da alcuni miei compagni di classe (non solo italiani), per nominarmi e io non capivo proprio perché dicessero queste cose a me.
In quei momenti mi sentivo incompleta, diversa, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nel mio corpo, come se qualcosa funzionasse male. Così ho cercato in tutti i modi di sembrare meno scura, evitavo di prendere il sole, usavo fondotinta più chiari, ma questo sembrava non bastare mai, le persone continuavano a trovarmi troppo scura per essere italiana.
Leggendo questi testi mi sono resa conto di quando anche io sono stata sopraffatta dal desiderio di identificarmi nella bellezza bianca, come è avvenuto per molte donne scure o di colore.
Crescendo ho imparato a riconoscere e a combattere questa violenza, comprendendone anche le contraddizioni. Infatti, non è raro che alcune signore vedendomi la prima volta affermino di invidiare la mia pelle perché “sembro abbronzata tutto l’anno”. Da un lato la mia pelle sembra essere di un colore diverso e sbagliato, ma dall’altro è desiderata; negli ultimi anni sembra aver acquisito un certo valore, in quanto simbolo di bellezza e ricchezza (più sei abbronzata e più soldi hai per andare in vacanza), almeno secondo la mia esperienza personale.
Così per diverso tempo mi sono interrogata su questi episodi, sul perché le persone mi ponessero certe domande e sulla loro reazione alle mie risposte. È difficile sbrogliare il groviglio di significati che si celano dietro queste esperienze quotidiane, per questo motivo sono partita dai vissuti di altre persone, che queste contraddizioni le incarnano e le vivono in modo ancora più profondo e evidente del mio.

Colorismo
Nel testo “L’unica persona nera nella stanza” di Nadeesha Uyangoda, viene affrontato il tema del colorismo, un concetto che ha significati differenti in base alla lingua; ad esempio in italiano fa riferimento ad una tecnica pittorica, che prevede l’utilizzo preponderante del colore rispetto al disegno nell’ambito artistico e pittorico. Nei contesti anglofoni, invece, il termine viene maggiormente utilizzato per indicare la discriminazione e il pregiudizio verso persone con una pelle non bianca. Questa differenza, da sola, fa riflettere su come la questione del colore e della razza sia discussa in modo molto differente da un Paese all’altro e di come in Italia non venga affrontata in modo approfondito.
Il libro di Uyangoda prosegue con l’analisi di quelli che sono i concorsi di bellezza italiani e non, di come sia raro che in un concorso di bellezza vinca o anche solo partecipi una donna di colore. Per questo motivo vengono indetti concorsi distaccati, come “Miss Sri Lanka a Milano”, ma anche concorsi latinoamericani, cinesi, africani… Sembra non esserci spazio per colori diversi da quello bianco nei concorsi italiani, ecco perché si sviluppano delle vie alternative.
Nonostante il tentativo di far emergere una bellezza diversa, all’interno delle comunità delle minoranze stesse si attua un processo di differenziazione dettata dal colorismo, così anche in questi casi sono le donne più chiare ad essere definite più belle.
Il colorismo è chiaramente un processo discriminatorio che si insidia nell’identità e nel corpo delle persone non bianche, in particolare delle donne. Sono, infatti, queste ultime a essere maggiormente colpite, proprio perché vige l’idea che la donna debba rispettare certi canoni di bellezza per essere attraente agli occhi degli altri.
I concorsi di bellezza sopra citati, mettono parzialmente in discussione la legge del colorismo, in quanto cercano di far emergere dei tipi di bellezza diversi da quello egemonico, ma non ne sono completamente immuni. Anzitutto, in questi concorsi si tende a separare la bellezza in colori e in nazionalità, come se il colore fosse automaticamente connesso al Paese di provenienza delle persone; in secondo luogo, le ragazze che vi partecipano in Italia, spesso fanno proprio parte di quella seconda generazione di figli di “stranieri”, nati e/o cresciuti in Italia. Secondo l’autrice, definire questi concorsi “Miss Sri Lanka” o “Miss Africa” o “Miss Filippine” è riduttivo, perché non rispecchia la reale identità di queste persone; si dovrebbe aggiungere il prefisso “italo”, per essere più corretti, ma comunque non basterebbe per rappresentare la specificità di ognuna di loro.
L’analisi dei concorsi di bellezza non dovrebbe esaurirsi qui, sarebbe necessario un articolo a sé stante per trattare in modo approfondito le dinamiche di natura razzista, sessista e classista che entrano in gioco in questi contesti.
Quello su cui vorrei soffermarmi è piuttosto il modo in cui il colore della pelle è stato utilizzato nel corso del tempo, come strumento di imposizione e mantenimento delle disuguaglianze.
Un importante antropologo che ha affrontato il tema del razzismo è Frantz Fanon, che tenta di decostruire la differenza tra neri e bianchi a partire dalle sue radici, ovvero il colonialismo.

Poi mi è toccato affrontare lo sguardo bianco. Una pesantezza inconsueta mi oppresse. Il mondo vero sfidava la mia posizione. Nel mondo bianco l’uomo di colore incontra delle difficoltà nell’elaborazione del suo schema corporeo.1F. Fanon , Pelle nera maschere bianche, Pisa, Edizioni EST, 2015.

Le persone non bianche scoprono di non essere normali molto presto. Capiscono che al loro colore sono associate moltissime caratteristiche negative, che spesso non gli appartengono, ma che vengono automaticamente trasmesse dalla loro non bianchezza. La risposta più immediata è quella di distaccarsi da quell’idea: “Io non sono nera, sono italiana”, rispondevo a tutti quelli che mi insultavano per il colore della mia pelle. Si cerca perciò di rinnegare la propria nerezza e avvicinarsi all’ideale di bianchezza, che è associato al comportamento “civile”, “educato”, alla bellezza e alla bontà, per non ritrovarsi ad essere identificate con tutti quegli appellativi dispregiativi che vengono associati ad un colore non bianco. Il passo più faticoso da fare è quello di riconoscere sé stessi e gli altri, abbandonando gli ideali razzisti interiorizzati, anche nelle stesse persone nere.

Radici e sangue
Il discorso delle radici e dell’identità per le persone non bianche è piuttosto complesso; è un percorso personale che non può essere generalizzato, ecco perché la pretesa da parte di alcuni Stati di associare la cittadinanza alle origini o ai luoghi di nascita delle persone, piuttosto che alla costruzione di relazioni, esperienze di vita, ricordi e tradizioni, è scorretta nei confronti di chi è cresciuto in quei Paesi, ma nato al di fuori di quei confini.
Se ripenso a tutte le storie lette, ai racconti di alcune mie amiche e al mio vissuto, mi rendo conto di come in Italia non c’è molto spazio per discutere di queste realtà, se non attraverso la narrazione della propria esperienza e la condivisione con persone che hanno una sensibilità verso questi temi.
Questa impossibilità di riflessione genera spesso rabbia e sconforto nelle persone italiane non bianche, che devono lottare costantemente per ottenere un riconoscimento o semplicemente per non essere trattate come estranee nel Paese in cui vivono. Sicuramente la letteratura postcoloniale rappresenta uno spazio di possibilità di espressione e di resistenza, che consente alle italiane e agli italiani non bianchi di raccontare la loro visione del mondo e del proprio Paese.
Secondo Nadeesha Uyangoda, in Italia non esiste quella contrapposizione tra bianchi e neri che troviamo in America o in altri contesti occidentali, qui la distinzione è tra italiani e stranieri, tra chi merita aiuto e sostegno dallo Stato e chi non lo merita. Chi possiede “sangue italiano” può avere dei vantaggi importanti; se si hanno parentele con italiani si può accedere alla cittadinanza anche se non si vive in Italia. Mentre chi ha vissuto la maggior parte della propria vita in questo Paese, ma è nato in un altro, deve guadagnarsi la possibilità di diventare un cittadino. Non è concesso alcun errore, il loro comportamento deve essere impeccabile, prima e dopo l’ottenimento della cittadinanza. Di fronte agli “italiani originali” non si possono mostrare modi di fare, abitudini, consuetudini e tradizioni differenti, altrimenti si rischia di compromettere l’italianità pura. Un esempio di ciò è riportato da Leila El Houssi, autrice di uno dei saggi del testo Future, quando era piccola aveva raccontato alla classe di avere cinque nonni, questa informazione aveva scosso la maestra, molto più che i suoi compagni, i quali si mostrarono interessati a scoprire cosa significasse avere una nonna in più. La poligamia in Italia non è accettata, secondo la Chiesa è una pratica “barbara” appartenente popolazioni primitive e arretrate. Forse questa idea si è perpetuata nel tempo fino ad oggi, dove anche nelle aule scolastiche, le quali dovrebbero rappresentare un luogo di educazione, apertura e rispetto per l’altro, continua a persistere. Si perseguita ciò che è diverso invece di condividerlo, si impongono i propri valori e ideali come più giusti e adeguati, invece che esplorare nuove possibilità che comunque fanno già parte della nostra realtà.
Ciò che non viene affrontato in questi casi è il fatto che l’italianità non è qualcosa di immobile e statico, qualcosa che bisogna preservare e che si trasmette attraverso il sangue, ma è in continua mutazione. Ciò che rendeva italiani un tempo non corrisponde al presente; dipende dalle persone che ne definiscono il significato e il senso. Il fatto stesso che esistano delle persone nere italiane, mette in discussione l’idea che gli italiani siano tutti caucasici, anche se non è comune ritenere che questa sia la realtà.

La razza
Un testo che può risultare utile in questa analisi è “Favelas e asfalto”, scritto dall’antropologa Silvia Stefani. Questo saggio etnografico  analizza  la realtà delle favelas di Rio De Janeiro e delle lotte che queste popolazioni hanno attuato per difendere il loro modo di abitare la città. Il capitolo che si collega al mio discorso è l’ultimo, sul razzismo sistemico presente in Brasile e sull’analisi intersezionale della discriminazione che i movimenti femministi hanno portato avanti negli ultimi anni.
Ciò che mi interessa di più in questo scritto è la comparazione che l’autrice fa tra Brasile e Italia riguardo al concetto di razza. Nel primo caso il termine raça viene utilizzato nel linguaggio comune, ed è stato analizzato anche dagli intellettuali del Paese; questo perché in Brasile la diversità etnica, culturale e di colore è stata per anni al centro di propagande politiche, le quali passavano il messaggio di un Paese multietnico, senza il razzismo europeo, dove persone di razze diverse convivevano in modo pacifico. Ma come emerge dal testo, non è stato affatto così. Il razzismo in Brasile era celato in un’infrastruttura culturale e sociale che permetteva ai bianchi di dichiararsi non razzisti e che portava i neri ad autoclassificarsi in base alla gradazione di colore.
In Italia, invece, il termine razza, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, ha acquisito una forte connotazione negativa, è stato bandito dal linguaggio comune e anche per questo motivo non è stato indagato in maniera approfondita.
Questo ha generato dei vuoti concettuali che oggi si stanno riempiendo grazie a quelle persone e realtà che mettono in discussione l’idea di Italia come Paese di persone bianche.
Il fatto di non utilizzare la parola razza ha tutta una serie di implicazioni, tra cui quella di non tenere conto di una parte della storia italiana, quella del colonialismo, che se pur breve ha influenzato l’immagine di bianchezza italiana.
Il periodo coloniale italiano iniziò verso la fine dell’Ottocento e terminò negli anni ’60 del Novecento, è un capitolo della storia che viene solo accennato nei manuali scolastici. Non si parla dei massacri, delle guerre, degli stupri e delle violenze che quelle popolazioni hanno subito a causa degli italiani che si sono insediati nei loro territori. In questi casi la propaganda in “madre patria” era sempre la stessa: gli italiani hanno portato sviluppo e civiltà ai popoli del continente africano; perciò la realtà è rimasta nascosta anche quando era evidente.
Durante il regime fascista la repressione nei confronti dei popoli colonizzati divenne ancora più dura e il razzismo ancora più pervasivo. Per mantenere la purezza della razza ariana furono vietati i matrimoni misti, anche se i figli “meticci” nacquero comunque dalle seduzioni ingannatrici e dagli stupri delle donne nere.
Preservare il colore della razza ariana era l’aspirazione degli italiani bianchi, grazie al fascismo e all’alleanza degli italiani con i nazisti divenne la priorità di tutto il Paese in quegli anni, nonostante non tutti gli italiani fossero bianchi. Una persona come me, di origine meridionale e di carnagione scura sarebbe stata guardata con sospetto in quegli anni.
Forse una parte di quella storia vive ancora dentro di noi, nei nostri pensieri, stereotipi e pregiudizi.
Come ha detto N. Uyangoda, nessuno è realmente immune al razzismo, anche chi è contro questo sistema in fondo vi aderisce inconsapevolmente, perché si è costruito nel corso del tempo tramandandosi da una generazione all’altra. Il razzismo, così come il patriarcato, non sono strutture semplici da sradicare, sono pervasive, rappresentano dei pilastri su cui la nostra società si è costruita. Perciò risultano difficili da riconoscere e modificare, anche se secoli di lotte e resistenza stanno cambiando la realtà e il nostro modo di pensare.

Conclusioni
In questo breve articolo ho cercato di collegare la mia esperienza personale a quella di alcune scrittrici che si dedicano alla letteratura post-coloniale proprio per parlare di razzismo e di colonialismo in Italia. Il fatto che siano tutte donne mi fa riflettere sulle interconnessioni che esistono tra i diversi livelli di discriminazione della nostra società.
Non si tratta solo di essere nere, ma anche di essere donne e povere; tutto questo è un impedimento  alla possibilità di ottenere le stesse risorse e possibilità degli altri, ma anche di vivere con l’agio che solo un bianco riesce ad avere in questo mondo, ovvero il fatto di non pensare mai al colore della propria pelle.


Riferimenti:

Fanon F. (1952), Pelle nera maschere bianche, Pisa, Edizioni EST, Pisa, 2015;

Scego I., Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, Firenze, Effequ, 2019;

Stefani S., Favelas e asfalto. Disuguaglianze e lotte a Rio de Janeiro, Torino, Rosenberg & Sellier, 2021;

Uyangoda N., L’unica persona nera nella stanza, Roma, 66thand2nd, 2021.