L’antropologia è vedere, o forse non è così

di Chiara Pedrocchi
Pubblicato il 13 novembre 2024

Immagine creata con Canva AI Image Generator.


In sala ride solo chi ha studiato antropologia. È una risata un po’ amara, che sa di identificazione e disagio, ma anche di rassicurazione e complicità. La protagonista di Parthenope, il nuovo film di Sorrentino, domanda e si domanda a più riprese, durante le due ore in cui la vediamo fare ricerca, sul campo professionale e su quello personale, cosa sia l’antropologia. È quello che si chiede anche ogni antropologə, quasi ogni giorno.

L’antropologia è vedere
La risposta al quesito le viene data dal suo professore, Devoto Marotta, solo verso la fine del film, nel momento in cui l’uomo esce di scena per rifugiarsi nella pensione, nell’amore per il figlio malato e nel mare. Questi due, peraltro, considerando la pelle come confine del corpo e il suo corpo come pieno di acqua e sale, sono un po’ la stessa cosa. Marotta dice a Parthenope che l’antropologia è vedere, il che è difficilissimo, sostiene, perché è, appunto, l’ultima cosa che si impara.
Non guardare, non osservare, non scrutare, ma vedere. E vedere, oltre a essere legato alla vista e alla percezione involontaria, è un concetto legato alla comprensione, al giudizio.

Paolo Chiozzi, professore esperto di antropologia visuale, nel suo saggio Saper vedere: il “giro lungo” dell’antropologia visuale conferma questo approccio a tale verbo e a tale azione: “(…) Nel mio lungo percorso ‘visuale’ ho potuto rendermi conto che per imparare a saper vedere non bisogna solo guardare. Ho scoperto l’importanza degli altri sensi e delle emozioni comprese le proprie”. È ciò che sosteneva anche l’antropologo e psicoanalista George Devereux quando, nell’introduzione al suo testo Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento scriveva “Così del resto deve essere: colui che studia il comportamento deve rivolgere l’analisi e la critica prima di tutto verso se stesso”.

Quel rivolgere lo sguardo verso se stessi è, tra l’altro, la chiave per eliminare ogni illusione di neutralità e oggettività nella ricerca antropologica. Questo elemento non la priva tuttavia di credibilità, ma, anzi, il fatto di riconoscere un proprio posizionamento è un gesto di onestà intellettuale verso se stess3 e verso il lettore, oltre che un importante dato in più rispetto al lavoro che si sta svolgendo.

O forse non è così
Alle parole di Marotta che sostiene che l’antropologia sia vedere, sembrano fare da controparte quelle del cardinal Tesorone, che Marotta definisce il demonio, un seduttore. Ma alla fine è la frase di Tesorone che Parthenope ripete facendo propria: “Forse non è così. O forse non è così”. In fondo lo sa anche Marotta, quando pronuncia e ribadisce il patto con Parthenope di non giudicarsi reciprocamente – proprio, forse, perché si potrebbe dedurre qualcosa che in realtà non è così. E infatti quando Tesorone le chiede cosa pensi Marotta, Parthenope dice di non capirlo, perché ha scelto di non vederlo e di non giudicarlo.

“Forse non è così”, la lapidaria massima di Tesorone, ricalca il concetto di dubbio antropologico, espressione del filosofo Merleau-Ponty che la approfondisce nella sua opera Fenomenologia della percezione. Tesorone non dice “non è così”, non nega l’evidenza, semplicemente, con quel “forse” instilla il dubbio che le cose possano essere altrimenti rispetto a come le percepiamo.

E quindi?
Delle due, le due. Sono vere entrambe le affermazioni, tanto quella di Marotta quanto quella di Tesorone. Antropologia è vedere, ma è anche capovolgere, sconvolgere e stravolgere, è approfondimento e dubbio. È la pesantezza e la fortuna di non poter chiudere gli occhi e fermare il pensiero, la condanna di uno sguardo indagatore tanto durante la ricerca quanto nel personale. È un campo costante e sfiancante, un lavoro sugli altri e su di sé, scrutandosi allo specchio come fa Parthenope. È per la pesantezza di questo sguardo che John Cheever, lo scrittore americano che Parthenope incontra a Capri e di cui ha letto tutti i racconti, non vuole rubare a Parthenope neanche un istante della sua giovinezza, ed è per questo che il professor Marotta fornisce le sue personali risposte solo sul finale. E non a caso non lo fa dalla sua cattedra, non la fa davanti ai libri, bensì nella stanza dove si trova il figlio, il personale più intimo, l’incarnazione di un confine labile dove l’interno e l’esterno sembrano mescolarsi.

Il nome di Parthenope, d’altronde, è il nome della città, Napoli, e la sua persona si fonde nella liquidità di “tutto il resto”. Pensare “a tutto il resto”, come Tesorone sostiene Parthenope faccia, significa pensare anche a sé: si può provare a fuggire, ma “siamo ancora qua”, come la frase che chiude il film. È la stessa cosa che scriveva Carlo Severi commentando nell’introduzione al testo l’opera di Devereux: “La conclusione più significativa è che, sul campo come nel lavoro clinico, l’osservatore può osservare l’altro solo osservando se stesso. Anzi: solo se osserva in un certo modo se stesso, vede l’altro”.

L’esperienza di essere visti
C’è una performance del 2010 di Marina Abramovič al MoMa di New York che consiste nella presenza dell’artista davanti a un tavolo (in seguito rimosso) e a un’altra sedia, dove le persone si alternano per tutto il giorno, sei giorni a settimana, per svariati mesi. La performance, dal titolo “The artist is present”, è diventata famosa soprattutto per l’incontro con Ulay, artista ed ex partner di Abramovič, che si è presentato a sua insaputa, regalando al pubblico uno spettacolo di un’intensità rara. Ma cercando online si trova anche la descrizione di altri incontri, altre reazioni e altri spunti di riflessione a partire dall’opera. Una persona, per esempio, si è presentata con una cornice con uno specchio riflettente, in modo che l’artista si specchiasse. Nel parlare di altre performance, in modo complementare, Marina Abramovič ha dichiarato di diventare lo specchio del pubblico.

Osservare e venire osservati, come dice Carlo Severi, provoca angoscia. Allora forse è questa, l’antropologia. Vedere, dubitare, ma soprattutto scendere a patti con una sensazione esistenziale che rende difficile alienarsi, estraniarsi dal contesto, dimenticandosi di sé e degli altri. Parthenope lascia, allo spettatore, una bella storia e un’ottima fotografia, ma anche la stessa sensazione di disincanto che solo l’antropologia sa dare e lo stesso desiderio di lavorare sul proprio sguardo perché sia sempre più incisivo e al contempo meno assertivo. Più di tutto, però, rimane il patto implicito con un’angoscia che, seppur in misura diversa, deve diventare collettiva, per una riappropriazione dello spazio e del tempo e la co-costruzione di un altro presente, di altre relazioni e di altri sguardi.


Riferimenti:

Abramovič M., The artist is present, performance, Museum of Modern Art, New York, 2010;

Devereux G., Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1984;

Merleau-Ponty (1945), Fenomenologia della percezione, Roma, Bompiani, 2003;

Müller O., Being Seen: An Exploration of a Core Phenomenon of Human Existence and Its Normative Dimensions, «Human Studies», 40 (3), 2017;

Russel A.M., Embodiment and abjection: trafficking for sexual exploitation, «Body and society», 19 (1), 2013;

Sorrentino P., Parthenope, film, 136 min., Italia/Francia, 2024.