Il caso del disseccamento degli ulivi pugliesi — di Rebecca Sabatini
Pubblicato il 17 aprile 2023
In questo momento della nostra storia, si sta progressivamente rafforzando la consapevolezza a proposito dei limiti di alcuni concetti finora utilizzati per mettere in ordine e spiegare il mondo che ci circonda. Si assiste per esempio all’assottigliamento del confine tra categorie apparentemente semplici come quelle di Natura e Cultura e si crede sia necessario superare questo dualismo, abbandonando la dicotomia netta noi/loro quando ci si riferisce a umani e non-umani (piante, animali, rocce, batteri…). L’attenzione oggi si pone su una considerazione collettiva e iper-relazionale di chi abita “lungo il mondo”, per usare le parole di Tim Ingold, importante antropologo britannico, i cui contributi su questi temi si sono rivelati fondamentali. Ci si concentra sulle alleanze, sulle interdipendenze e sull’attivazione politica di tali intrecci e tali collettivi di esseri. Ci si trova al centro di un intenso e complesso dibattito a cui nell’ambito delle scienze sociali ci si riferisce con l’espressione di “svolta ontologica”. Si tratta di una prospettiva innovativa che spinge a guardare ciò che accade condividendo il punto di vista di attori finora sempre considerati come passivi, a capovolgere la prospettiva e interrogarsi su come funziona la fittissima rete di relazioni in cui siamo imbrigliati.
Guardare attraverso le lenti fornite da questo nuovo e − forse − straniante approccio, concede la possibilità di conoscere vicende e legami sconosciuti, ma anche di rileggere, approfondendo, fatti e circostanze note, rendendole ancora più intensamente esplorabili. A partire da questo quadro teorico è infatti per esempio possibile gettare nuova luce sulla crisi ecologica che ha interessato la Puglia invasa dalla Xylella1La Xylella fastidiosa è un batterio che si sviluppa nei vasi xilematici delle piante fino, talvolta, a ostruirli. Quando questo avviene, la Xylella dà origine a diverse patologie vegetali (per saperne di più si rimanda al lavoro di Michele Bandiera edito nel 2020)..
Recentemente, ciò è stato fatto a partire da una prospettiva geografica, antropologica e sociologica, in grado di dare contemporaneamente un contributo, nuovo e necessario, alle riflessioni sull’Antropocene, l’epoca in cui viviamo, ormai ufficialmente riconosciuta, dopo più di vent’anni di dibattito, come una vera e propria nuova era geologica. Ciò che ha portato all’identificazione di un passaggio da un’era vecchia a un’era nuova, caratterizzata dalla preponderanza di cambiamenti provocati dall’azione umana, è stata la consapevolezza della pregnanza di tali cambiamenti e soprattutto della loro velocità, una rapidità mai verificatasi prima d’ora: alterazioni chimiche nell’atmosfera, cambiamento climatico, desertificazione, scioglimento dei ghiacciai, ma anche di crescita demografica e urbanizzazione, per citarne alcuni.
Il dibattito sulla nozione di Antropocene, come era geologica, è tuttora vivissimo. Non perché se ne metta in discussione la ragion d’essere, ma perché c’è chi cerca di proporre nomenclature alternative che spostino il focus su elementi caratterizzanti più specifici della generica nozione di essere umano. Jason W. Moore, per esempio, storico dell’ambiente e docente di economia politica all’Università di Binghamton negli Stati Uniti, propone, polemicamente, l’etichetta alternativa di Capitalocene, ponendo tutta l’attenzione sulle azioni e le ripercussioni del sistema capitalista sul pianeta. Suggerisce infatti che la Natura non sia esterna ai processi di produzione, che il capitalismo stesso sia un regime ecologico e che in quanto tale vada studiato a partire dalla consapevolezza di una commistione originaria tra dinamiche sociali ed elementi naturali. Il capitale è per lui un modo di organizzare la Natura e va compreso proprio a partire dal concetto base di ecologia-mondo. Donna Haraway, filosofa e importante esponente dei gender studies di matrice femminista, d’altro canto, crede che sia ideologicamente sbagliato porre così tanta enfasi sulla variabile anthropos, cioè sulla già così ingombrante dimensione umana. Propone dunque la categoria di Chthulucene (dal nome del ragno californiano Pimoa Cthulu, per richiamare le concatenazioni tra esseri viventi e humus − la terra, il terreno −, così come la generatività potenzialmente rischiosa dei processi di interazione tra sistemi viventi, anche a livello microbiologico) ed esorta a spostare nuovamente l’attenzione sulla Terra e sul sotterraneo, riflettendo sulle alleanze, costruttive o distruttive, tra umani e non umani, nell’epoca dell’inesorabile cambiamento ambientale: “I am a compost-ist, not a posthuman-ist: we are all compost, not posthuman”, scrive. Le possibili etichette di questa nuova epoca sono dunque molto dibattute, così come la scelta della prospettiva critica da preferire, ma ciò che rimane come elemento comune, mai messo in discussione, è quello della consapevolezza di un cambiamento, rapido e incombente, da riconoscere e contrastare.
Alla luce di queste riflessioni, che allargano innegabilmente la prospettiva, è possibile dunque interpretare anche il caso del disseccamento degli ulivi pugliesi, permettendo di considerare la vicenda all’interno di un quadro incredibilmente più complesso e articolato, che tiene conto di come le traiettorie di vita di umani e non umani si incontrano e aggrovigliano nell’epoca della globalizzazione.
La pratica dell’olivicoltura in Puglia ha origini settecentesche e la Xylella Fastidiosa, batterio giunto in Italia dall’America Centrale, ne ha interrotto in maniera traumatica la prassi, provocando il disseccamento e l’eradicazione degli alberi. La Xylella Fastidiosa è infatti un patogeno definito, come vedremo, “globale”, che ha appunto complicato la rete di relazioni, tra esseri umani e non umani, intrecciatasi nei secoli nella dimensione locale dell’area salentina. Queste vicende possono essere analizzate con gli strumenti concettuali suggeriti, interrogando le trame ecologiche che interessano il territorio pugliese, cioè tenendo conto dell’agency (ossia la capacità di agire, operare e rendersi presenti) di tutti i suoi componenti. La fittissima rete di relazioni tra umani e non-umani a cui si continua a fare riferimento non è altro che l’insieme dei rapporti uomo-albero/albero-batterio ma anche insetto-albero e uomo-insetto – quest’ultimo ricorrente nella storia pugliese2Il riferimento qui è al fenomeno del tarantismo pugliese (e quindi alla tarantola, animale mitico-simbolico, che mordendo, soprattutto le donne, provocava stati di agitazione psico-motoria curati tramite riti coreutico-musicali) studiato da De Martino alla fine degli anni ’50 e trattato nel suo lavoro più conosciuto, La terra del rimorso. – alla base di attività come quelle agricole che implicano un rapporto inscindibile, sebbene in continuo cambiamento, tra l’essere umano e le singole componenti naturali con cui egli interagisce. Osservando la continuità e non le discontinuità tra gli esseri, le loro relazioni e non i livelli di separazione, è possibile rispettare la complessità e comprendere le dinamiche di un contesto in cui la quantità e la qualità delle interazioni multispecie sono largamente consistenti. Nonostante esistano dei nodi teorici ancora da sciogliere alla base dell’assunzione di una tale postura (i confini e le applicazioni della considerazione dell’agency dei non-umani sono ancora nebulosi, per esempio) è indubbio che partire dal presupposto di un ambiente co-costruito, nel senso appena descritto, possa aprire a nuovi risultati e a nuove prospettive. Se si riflette infatti su questi rapporti a partire da una prospettiva che tiene in considerazione, nello specifico, anche l’agency vegetale, ossia la capacità di azione delle piante, è possibile capire come anche quest’ultima venga rielaborata culturalmente e socialmente da persone e istituzioni (l’antropologa Lia Zola spiega molto bene questi elementi nei suoi studi). Le piante sono ormai considerate, sia negli studi di biologia molecolare sia in quelli antropologico-culturali, come organismi sociali sofisticati, la cui intelligenza è sottostimata o ancora non riconosciuta. Ciò avviene prevalentemente per via della lentezza che caratterizza la loro operatività e per via della loro stanzialità. Le piante di fatto, sebbene prive di intelletto, risolvono problemi, comunicano e progettano il futuro. Lo fanno nei termini in cui devono crescere, resistere e difendersi, attivandosi per superare ostacoli e pericoli. Sono dotate cioè della capacità di perseguire una strategia evolutiva. Sono d’altro canto composte da parti divisibili, ossia da moduli reiterati e indipendenti che le rendono, come è stato recentemente sostenuto dal professor Stefano Mancuso, organismi più forti e resistenti degli animali: un animale risente di una gamba spezzata molto più di quanto una pianta lo faccia di un ramo spezzato. Sono di fatto colonie, e non individui (sostiene sempre Mancuso), da cui siamo fortemente dipendenti, in termini di ossigeno, alimentazione, energia e salute. Gli organismi apparentemente più silenziosi, passivi e indifesi di ciascun ecosistema condizionano, e per certi versi orchestrano, la vita di tutti gli altri. E il caso pugliese lo dimostra.
Risalgono al 2008 le prime forme di disseccamento degli ulivi pugliesi, ma è stato necessario aspettare fino al 2017 per la diagnosi che ha individuato nella Xylella Fastidiosa la vera responsabile di ciò a cui si stava assistendo3Come sostiene Michele Bandiera (2019), sarà solo nel 2017 che verrà “sperimentata l’aderenza ai postulati di Koch, criteri destinati a definire la relazione di causa-effetto che lega un organismo ad una malattia. In realtà già da prima veniva comunemente associato il batterio a questa forma di disseccamento in Puglia, tant’è che le politiche di contenimento lo danno per assodato ben prima del 2017.”. Giunta in Italia, passando per il porto di Rotterdam, tramite una pianta ornamentale di caffè importata dalla Costa Rica, la Xylella Fastidiosa è stata definita dal sociologo Christian Colella, come si accennava più sopra, un patogeno globale, un batterio la cui vita, osservata da vicino, è in grado di descrivere i flussi della contemporaneità globalizzata. La Xylella arriva in Salento, invade le distese di ulivi, che erano state punto di riferimento culturale ed economico per generazioni, e le distrugge. Le disposizioni fitosanitarie prevedono l’eradicazione come unica possibile soluzione al problema, provocando resistenze e indignazione tra gli abitanti della zona. L’arrivo della Xylella e l’azione dell’insetto vettore, il Philaenus spumarius, la comune sputacchina, hanno complicato il groviglio di confidenza e socialità, intrecciato nei secoli tramite la pratica olivicola, tra gli umani e i non umani dell’area, rimettendo in discussione il paradigma del mondo conosciuto, ossia le certezze e le consapevolezze rispetto all’ambiente circostante, e il modo in cui vivere e con-vivere immersi in esso. La diffusione del batterio e la successiva epidemia, apparsa per lungo tempo come inarrestabile, hanno messo in discussione le prassi e le conoscenze che si avevano delle piante e del territorio.
L’olivicoltura pugliese nei primi anni 2000 era ormai per la maggior parte di tipo chimico, prevedeva cioè l’ausilio di prodotti chimici dominasse la pratica agricola, e questo dato è fondamentale per comprendere le dinamiche e l’evoluzione degli eventi. Quando furono avvistati i primi casi di disseccamento, infatti, la diagnosi iniziale fu quella di CoDiRo, ossia di Complesso del Disseccamento Rapido dell’Olivo, condizione che sembrava indicare all’impoverimento del terreno, pericolosamente vicino alla desertificazione, e alla natura monocolturale della coltivazione come le cause della malattia degli alberi. Gli scenari desolati di ulivi secolari secchi e agonizzanti sembravano di conseguenza essere collegati a prassi agricole da anni non più biologiche, a un mercato dell’olio intensivo e a cambiamenti ambientali completamente causati dalle azioni umane. I disseccamenti erano quindi stati inizialmente inquadrati come esito di una serie di concause strettamente legate all’allarmante degrado del suolo e sembravano contrastabili con la sola adozione di “buone pratiche”4Questa l’espressione usata più spesso nel gergo, nella comunicazione ufficiale e in quella giornalistica agli esordi della vicenda, poi rimasta cristallizzata a rappresentare una specifica scuola di pensiero di cui si dirà di più tra poco. capaci di ripristinare la sostanza organica e la flora batterica del terreno. Gli alberi secchi potevano dunque secondo questa diagnosi essere curati. O almeno era questo che gran parte della popolazione aveva deciso di credere e sostenere. Il piano relazionale, l’intricato legame socio-culturale, costruito con il tempo nel ripetersi costante e fedele della pratica agricola, fonte di sostentamento, eredità e investimento emotivo, oltre che economico, incombeva e si proponeva di schiacciare l’allarme di chi invece sosteneva l’inesorabilità del destino degli ulivi. La comunità scientifica, in maniera sempre più compatta, aveva cominciato ad affermare che fosse la Xylella a provocare la malattia e che quest’ultima fosse incurabile e altamente contagiosa: l’unica soluzione risultava essere, come detto, quella dell’eradicamento per interromperne la diffusione. Tale posizione, assunta come corretta anche al livello delle decisioni politiche, ha ottenuto una strenua opposizione, che basava la propria resistenza su argomentazioni che negavano − e negano tutt’oggi − l’esistenza del batterio stesso. La Xylella veniva descritta come un complotto: l’eradicazione forzata degli ulivi non era secondo questa scuola di pensiero necessaria al fine di bloccare l’epidemia, ma era un modo per agevolare, in maniera opaca e criminosa, ora l’ILVA di Taranto, ora la società in gestione del gasdotto TAP, che avevano la necessità di utilizzare a propri fini terreni altrimenti dedicati alla coltivazione. La malattia degli ulivi per questo forte schieramento non era altro che un’emergenza creata ad arte per aggirare la legge regionale a protezione degli alberi secolari o per favorire l’importazione di varietà straniere di ulivi o ancora agevolare l’importazione di olio tunisino. Le teorie furono numerose e tutt’ora esiste uno zoccolo duro che le sostiene, incapace forse di ammettere che l’essere umano, specie dominante, possa non essere in grado di vincere in uno scontro multispecie. I più attenti studiosi della questione (come il già citato Michele Bandiera) identificano proprio qui, in questa frizione appena descritta, ossia nella controversia rispetto all’oggettività scientifica, la prova di quella labilità tra Natura e Cultura a cui si faceva riferimento in apertura. L’innesco di queste dinamiche e la loro evoluzione, in grado di portare alla crisi dell’intero sistema di attività territoriali, dimostrano come non si tratti di una questione che riguarda solo la Natura in quanto elemento in pericolo, ma anche la Cultura, ossia tutto ciò che ha a che fare con le conoscenze, le pratiche, le tradizioni e le convinzioni su cui si basa il rapporto biunivoco con la Natura stessa: la loro co-dipendenza e la loro reciproca autodeterminazione.
L’epidemia di Xylella, distruttiva e difficilmente arrestabile, ha aperto gli occhi sulla crisi eco-sociale globale che caratterizza questo momento storico: il cambiamento climatico conduce alla distruzione delle nicchie originarie di appartenenza delle specie (i loro “rifugi”), caratteristica precipua dell’Antropocene secondo l’antropologa Anna Tsing. La conseguenza è la nascita di “forme di vita nomadi” capaci, con il proprio movimento, di stravolgere gli altri gruppi di specie, come accaduto in Puglia, e rivelando che la circolazione dei patogeni è essa stessa una forma di cambiamento climatico (Christian Colella e Michele Bandiera approfondiscono molto bene nei loro lavori questa prospettiva). L’inesorabilità della sorte degli ulivi, l’arrivo inaspettato e incontrastabile di un batterio mortifero, che oggi, in epoca post-Covid, ci appare come uno scenario familiare, è stato allora uno scossone capace di far realizzare il risvolto negativo dell’iper-connessione globalizzante, in grado di mettere fine al mondo salentino così come lo si aveva sempre conosciuto. Le azioni di un patogeno-viaggiatore, di alberi anziani, saggi ma vulnerabili, di uomini febbrilmente produttivi e poi febbrilmente preoccupati si sono incrociate rivelando la loro estrema interdipendenza. La malattia delle piante e la conseguente furia non-risolutrice di chi era abituato a prendersene cura hanno illuminato le trame complesse di tali relazioni, raccontando di come la produzione della terra non sia né dalla parte dell’essere umano né dalla parte della Natura, e sia piuttosto, come direbbe Tim Ingold, una corrispondenza tra vicende estremamente terrene e azioni umane.
Riferimenti:
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