Gente di Łódź. Etnografia di una città in trasformazione (parte 2 di 3)

— di Katarzyna Piotrowicz
Pubblicato il 1° maggio 2023


Łódź, situata nel centro della Polonia, è una città dalle mille definizioni, storicamente conosciuta soprattutto per l’industria tessile e per la famosa scuola di cinema frequentata da grandi registi di fama mondiale come Polański, Kieślowski e Żuławski. Spesso ignorata dagli studiosi del settore, sconosciuta ed esclusa dai percorsi turistici più popolari, da decenni ormai cerca di trovare una nuova identità incentrata sui servizi e gli eventi culturali. Per comprendere meglio la sua essenza attraverseremo gli ultimi quarant’anni della sua storia in un viaggio spazio-temporale diviso in tre capitoli. Inizieremo questo percorso negli anni ’80, periodo di grandi cambiamenti che porteranno alla dissoluzione di tutto il blocco comunista. Proseguiremo soffermandoci sul decennio successivo per osservare come il crollo dell’industria abbia cambiato l’identità di Łódź e in che modo abbia  influito sulla vita dei suoi abitanti. Nell’ultima parte del nostro viaggio ci concentreremo sui primi decenni del nuovo millennio. Da questa prospettiva potremo osservare la situazione attuale e valutare l’aspetto di una città reinventata, costretta a rapportarsi con le nuove opportunità che le sono state offerte dall’era della globalizzazione e del neoliberismo.

Anni ’90: la grande sfida

Nel 1989 la tanto agognata libertà diventa realtà. Il governo e l’opposizione si siedono insieme alla tavola rotonda a discutere il futuro del Paese. L’intero blocco comunista sta per crollare, nell’Unione Sovietica Gorbacëv sta portando avanti la sua perestrojka e a distanza di qualche mese crollerà il muro di Berlino.
Il passaggio dal regime comunista al capitalismo non era semplice. Le trattative bilaterali tra il governo e l’opposizione conviene ad entrambe le parti. Tutti volevano in qualche modo evitare di dover assumersi la responsabilità per quello che stava per accadere. La Polonia torna ad essere una Repubblica. Viene ripristinato il Senato, sospeso dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il parlamento sceglie come primo presidente della II Repubblica di Polonia Wojciech Jaruzelski, il generale responsabile dell’introduzione della legge marziale nel 1981. Si tratta di una scelta temporanea. Alle prime elezioni libere i polacchi consegneranno questa carica a Lech Wałęsa, il leader indiscusso del movimento Solidarność.
La maggior parte della popolazione era convinta che la situazione del paese, liberato dal regime comunista, sarebbe migliorata. Non si rendevano conto che il costo di questa trasformazione ad ampio spettro avrebbe colpito sopratutto i cittadini ordinari, non l’élite.
Franz Fanon, il grande studioso afro-francese, riferendosi alla difficile situazione presente in Algeria nel primo periodo post-coloniale, scrive nel suo libro  I dannati della terra “[…] mutare l’ordine universale è […] un programma di disordine assoluto”.
Anche in Polonia molto presto la gente si rese conto che la ricostruzione del sistema precedente, ormai fatto a pezzi, avrebbe richiesto tanti sacrifici e capacità particolari.

Ai tempi del comunismo la gestione economica del paese si basava sulla nomenclatura: tutte le decisioni, anche quelle di competenza governativa, dipendevano dal partito comunista.
Nella trasformazione del paese lo Stato si assume responsabilità differenti. La democrazia, in passato fortemente limitata dal regime, doveva essere costruita a partire dalle basi. Il suo modello risalente al termine della Prima guerra mondiale non era più attuale. I quarantaquattro anni passati nel blocco comunista avevano pesantemente influenzato la società e tutti i contesti della vita nel paese.
La nuova situazione economica offriva importanti opportunità.  Non tutti però erano in grado di sfruttarle. Le persone, pur avendo lottato per una patria non comunista, si erano abituate a essere gestite dalle “forze superiori” e avevano perso la capacità di autogestirsi e lo spirito di intraprendenza. Le condizioni di vita nella Polonia comunista non potevano essere paragonate con quelle dei paesi occidentali ma garantivano un certo livello di sopravvivenza a tutti i cittadini.
Dopo il crollo del sistema le garanzie hanno cessato di esistere, compresa quella di un lavoro sicuro, soprattutto quando si è rivelata necessaria la privatizzazione di alcuni grandi complessi industriali e aziende pubbliche particolarmente obsoleti, ancora in vita solo grazie agli incentivi statali.
Il problema dei licenziamenti, praticamente sconosciuto nella Polonia comunista, colpì le operaie tessili di Łódź già nei primi anni ’90. Questo periodo conosciuto come “periodo del crollo dell’industria tessile”, è stato testimone della chiusura o riduzione della produzione in tutte le fabbriche locali. La procedura di privatizzazione o liquidazione degli esercizi non era uguale per tutti ed era abbinata a diverse misure di protezione presenti all’interno di ogni fabbrica nei confronti dei lavoratori. Per decenni le operaie di Łódź venivano elogiate pubblicamente dal partito per il loro grande impegno nella costruzione della società comunista anche se in realtà non erano altro che uno degli ingranaggi del sistema, impersonali e totalmente dipendenti dalla politica del regime. Nei tempi di trasformazione la loro rappresentazione ufficiale assume dei connotati negativi: “Dagli anni ’90 questa loro immagine simbolica di grandi lavoratrici è stata sistematicamente demolita” – spiega Ewa, sociologa – “si cercava di farla passare per un prodotto della propaganda comunista. Nel periodo di smantellamento delle fabbriche si parlava molto di quanto l’industria fosse obsoleta e deficitaria, degli sprechi, degli operai pigri e svogliati. Era una versione del passato ingiusta”.

Ex fabbrica tessile di Poznanski
Foto di Jan Piotrowicz

Perdere il lavoro provocava traumi. Il nuovo Stato non aveva fatto in tempo ad escogitare nessuna strategia per contrastare questo fenomeno. Intanto i mass media diffondevano il nuovo modello comportamentale di stampo occidentale. Soltanto chi era capace di dimostrare le proprie competenze e seguire le proprie ambizioni era adatto a questa nuova realtà. Tutto quello che si riferiva in qualche modo al passato era sbagliato, anche le cose che magari tanto sbagliate non erano.
“Ai tempi del comunismo i disoccupati erano considerati persone al margine della società. Si trattava di elementi spesso patologici” – spiega Ewa – “Lo Stato garantiva lavoro a tutti, magari non sempre un lavoro che rispecchiava i sogni di ognuno ma un impiego era assicurato per ogni cittadino. Non c’era bisogno in questa ottica di un sistema di supporto dedicato ai disoccupati. Quando hanno iniziato a liquidare le fabbriche, chi veniva lasciato a casa subiva letteralmente uno shock. Il sistema scaricava tutta la colpa sull’individuo”.
Le operaie si interrogavano su quale fosse il motivo di quanto era successo, si chiedevano che cosa avevano fatto di così sbagliato per meritarsi un simile trattamento.
“Noi che lavoravamo in ambito accademico e altri rappresentanti di quello che potremo definire ‘l’intellighenzia’ locale, creammo i primi sportelli di ascolto, le prime associazioni di supporto. Non esisteva nulla. Prima del 1989 tutte le organizzazioni femminili dovevano essere autorizzate dal partito e a livello nazionale in tutto ce ne erano tre” – continua Ewa – “Il nostro compito più importante era quello di spiegare a queste donne che la colpa non era loro. Che quello che succedeva non dipendeva da una loro azione sbagliata”.
Queste nuove strategie di supporto offrivano aiuto psicologico, consulenza legale, fungevano da uffici di collocamento. Col tempo l’amministrazione predispose strutture statali e corsi di riqualifica appaltati spesso a operatori esterni.
Le donne disoccupate entro determinati limiti d’età potevano frequentare corsi di riqualificazione, ma chi non poteva ancora andare in pensione e non rientrava più nella fascia dei più giovani si trovava in una situazione davvero complicata. Queste persone spesso rimanevano bloccate in un loop temporale senza via d’uscita, passavano gli anni rimasti fino alla pensione nella più totale insicurezza cercando di sopravvivere grazie agli insufficienti aiuti statali e spesso non essendo più in grado di reinserirsi nel mondo del lavoro. Per fronteggiare questo problema le donne polacche  decidono di migrare nei paesi occidentali per svolgere i lavori di assistenza alle persone anziane, inferme e ai bambini. Il fattore di attrazione fondamentale risiedeva nei compensi molto più alti all’estero rispetto alla media nazionale. Non è da sottovalutare anche il desiderio di lasciare  il paese d’origine e di trasferirsi definitivamente all’estero o quello di abbinare i bisogni economici ad un percorso di crescita personale. Per tante donne la decisione di lasciare il proprio paese e la famiglia di riferimento equivale a una fase di passaggio o di sospensione, in attesa di condizioni più favorevoli per poter procedere con la ricostruzione della propria esistenza.
Nel libro Migranti e rifugiate, Barbara Pinelli si sofferma sui costi sociali e affettivi delle migrazioni: “Indubbiamente, questi processi di rottura vanno a pari passo con le pratiche agite nei processi di ricostruzione del sé, attraverso cui le persone formano nuove appartenenze, legami, campi d’azione, e trovano nella migrazione una possibilità di vita non contemplata nei luoghi d’origine”.
Gli stessi propositi porteranno a Łódź qualche decennio più tardi le vicine dell’Este, le ucraine, che offriranno i servizi analoghi alle famiglie benestanti polacche.
Gli anni ’90 non segnano soltanto gli effetti negativi del “grande cambiamento”. Nascono numerose aziende di piccole e medie dimensioni. Alcune di esse chiudono dopo un breve periodo di attività, altre affrontano con successo varie difficoltà diventando col tempo importanti punti di riferimento per la cittadinanza, conosciuti sul mercato nazionale e internazionale. Dalla fine degli anni ’90 inoltre iniziano ad arrivare nuovi investitori. I produttori europei di alcuni marchi importanti legati ai prodotti di consumo di massa aprono proprio qui le loro filiali. A Łódź, come in altri posti del mondo occidentale post-industriale, a lasciare la città non sono state tutte le industrie ma “quelle meno innovative, specie se di grandi dimensioni, in quanto i costi del lavoro e le restrizioni introdotte dalle nuove leggi a tutela dell’ambiente non rendono più convenienti le vecchie localizzazioni”, come sostengono gli autori del libro Le città del mondo Giovanni Dematteis e Carla Lanza. A Łódź la stragrande maggioranza degli stabilimenti industriali era di grandi dimensioni, siti nelle zone centrali della città, caratterizzati da tecnologie obsolete e quindi non adeguate ai bisogni produttivi moderni. Tutte le grandi fabbriche sono state chiuse, destinate a diventare centri commerciali, alberghi, in alcuni casi uffici, o abbandonate ad un progressivo deterioramento in attesa di una destinazione finale. Per i proprietari delle nuove fabbriche, considerati anche i problemi di viabilità nelle zone centrali della città, è convenuto costruire i propri stabilimenti nei quartieri periferici ma sempre facenti parte dell’area metropolitana.
“In queste fabbriche trovano spesso impiego gli stranieri, sono sempre più numerosi qui a Łódź. Si potrebbe dire che ai polacchi non interessa più lavorare nell’industria. Chi ha subito licenziamenti negli anni ’90 ormai è in pensione, la mia generazione ha optato per le soluzioni alternative” – spiega Michał.
I grandi centri commerciali come “Manufaktura” situata in un grande complesso industriale ottocentesco rivitalizzato, hanno fornito negli anni ’90 diverse opportunità di lavoro agli abitanti di Łódź, non soltanto nel settore commerciale ma anche in quello legato all’organizzazione degli eventi culturali di varie tipologie.
Dopo il 1990 le attività culturali di Łódź e di tutta la Polonia si sono liberate dal pesante fardello di dover servire la propaganda del regime. Il compito fondamentale delle istituzioni e delle imprese culturali era quello di trovare i nuovi finanziamenti privatizzando o commercializzando l’offerta culturale. L’ampia privatizzazione raggiunge il settore dei mass media compresa la loro distribuzione, il commercio dei libri e i cinema, spesso obsoleti e malfunzionanti. Questi ultimi necessitano di un guadagno certo, legato più alla distribuzione di massa che alle proiezioni più impegnative, di nicchia, così diffuse in passato nei cinema cittadini. Tutto finisce nelle mani dei grandi distributori americani.
La produzione cinematografica, che per anni ha caratterizzato Łódź in quanto capitale del cinema nazionale, ha subito un grave colpo legato alla forte limitazione dei finanziamenti statali o, in alcuni casi, del totale annullamento di tale supporto. Soltanto la scuola di cinema non ha perso il suo meritato prestigio continuando un eccellente lavoro didattico e formativo negli ambiti cinematografico e televisivo. Il problema della mancanza di fondi ha toccato invece i teatri cittadini. Nei tempi del regime i datori di lavoro distribuivano i biglietti nelle aziende per permettere ai propri dipendenti di partecipare attivamente alla vita culturale del paese. Adesso questa fonte di guadagno non era più disponibile. Soltanto alla fine degli anni ’90 la situazione materiale dei teatri è migliorata grazie ad una profonda riorganizzazione e ai fondi ottenuti dall’amministrazione locale.

Muzeum Wlokiennctwa Biala Fabryka
Foto di Jan Piotrowicz

Sempre grazie a fondi provenienti dall’Unione Europea, sono stati riqualificati alcuni spazi museali della città, creando interessanti centri interattivi a livello internazionale. Particolare attenzione merita il Museo dell’Industria Tessile di Łódź, allestito all’interno della Fabbrica Bianca fondata nel 1837 dall’industriale Ludwik Geyer, diventata  sede museale già nel 1960, rivista e modernizzata negli anni 2000. Nel cortile della fabbrica è stato ricostruito un quartiere operaio dell’Ottocento con abitazioni originali trasferite appositamente lì da varie parti della città.
Inizia un lento ma costante processo di rimodellamento della città. Le amministrazioni locali si rendono conto di quanto Łódź necessiti di una nuova identità, un nuovo piano urbanistico e idee innovative  per rendere la città più accattivante e “vendibile” agli investitori.
Le zone che segnano i limiti della città per diversi chilometri non si differenziano dalle aree prettamente periferiche, caratterizzate da piccole e mal distribuite zone residenziali, aree post industriali vagamente degradate, magazzini. Grazie agli investimenti finanziati dai progetti europei l’aspetto della città cambia ma il processo di rivitalizzazione e di ristrutturazione complica la vita dei cittadini per mesi, o addirittura per anni, costretti a muoversi in una città-cantiere e a convivere quotidianamente con il traffico intenso e inquinamento dovuto ai lavori in corso.

Muzeum Wlokiennictwa, ricostruzione abitazione operaia
Foto di Jan Piotrowicz

Łódź pur essendo situata in una posizione centrale della Polonia non ha mai vantato una buona rete stradale di collegamento con altri importanti centri nazionali e internazionali. In tutto il paese la rete stradale e autostradale non è mai stata sviluppata in un modo adeguato alle necessità e questa situazione è peggiorata ulteriormente con l’aumento dei mezzi di trasporto privati. Per rendere Łódź una città facilmente raggiungibile, l’amministrazione comunale ottiene fondi non soltanto per la costruzione delle nuove strade d’accesso alla città, ma anche per modernizzare e ampliare l’aeroporto cittadino e per una radicale ristrutturazione della stazione ferroviaria Łódź Fabryczna. Tra i più importanti obiettivi del governo locale troviamo anche quello legato alla corretta organizzazione delle eredità culturali e architettonico-urbane della città, l’integrazione della struttura spazio-funzionale, la ristrutturazione e l’ampliamento della rete stradale cittadina e la creazione di spazi pubblici. Una delle prime problematiche affrontate dalle nuove amministrazioni è legata alla qualità della vita dei cittadini, spesso poco omogenea. Lo sviluppo della rete di infrastrutture è stato molto dinamico portando gli allacciamenti di gas, acqua e della rete fognaria nelle zone periferiche che secondo i progetti urbani dovevano essere incluse nei confini cittadini, e sostituendo le tubature vecchie nelle zone già facenti parte della città. Le amministrazioni avevano inoltre deciso di verificare le previsioni dello sviluppo fatte in precedenza per prevenire e bloccare il processo di disintegrazione della struttura spaziale della città, impedire l’avanzamento di un’urbanistica caotica e dispersiva, e  limitare la localizzazione dei grandi esercizi dediti ai servizi e al commercio nelle zone periferiche per favorire lo sviluppo delle zone già urbanizzate.

Muzeum Wlokiennictwa, ricostruzione abitazione operaia
Foto di Jan Piotrowicz

La città è stata coinvolta in un processo di innovazioni a vari livelli, intese in quanto idee e capacità basate sulle complesse relazioni tra conoscenze “esplicite” (come le tecnologie) e fattori culturali fortemente radicati sul territorio.  La conoscenza vista come il componente dell’habitat urbano dovrebbe essere considerata in quanto bene comune, una risorsa prodotta in varia misura da tutti e a disposizione di tutti. Secondo Giovanni Dematteis e Carla Lanza “Essa deriva da un processo circolare che passa attraverso il territorio e in particolare attraverso le città: non deriva solo da attività intellettuali svolte in istituti e centri di ricerca specializzati, non è solo conoscenza generale e astratta. Le sue potenzialità economiche non riguardano solo l’alta tecnologia. Essa genera innovazione e sviluppo economico solo quando la sua forma generale e codificata si combina con le idee proprie di certi contesti culturali e con le conoscenze tacite degli utilizzatori e dei consumatori che ci vivono”.
La reinvenzione della città, la sua costruzione sia materiale sia riferita ad una dimensione identitaria, doveva coinvolgere tutti i cittadini, non soltanto le amministrazioni. Il problema costituiva il modo in cui questa collaborazione doveva avvenire. L’innovazione economica delle città nel suo aspetto organizzativo e tecnologico,  si è sempre basata sulla creatività urbana. E anche se si tratta di un processo non prevedibile  e non programmabile, gli studiosi come Jane Jakobs, Saskia Sassen, Allen Scott o Richard Florida, hanno cercato di individuare le condizioni di contesto favorevoli al suo sviluppo o al suo potenziamento. Tra queste troviamo le relazioni con il resto del mondo assicurate dall’internalizzazione e crescita delle imprese e istituzioni, capacità di attrarre e accogliere le persone di culture diverse, capacità di rafforzare il tessuto scientifico – culturale di base e creazione di “atmosfere urbane favorevoli appunto alla produzione di conoscenza e innovazione”, anche in collaborazione con istituzioni, associazioni e scuole.
La città, ormai priva della sua attività tradizionale basata sull’industria, doveva affrontare il problema legato a una nuova autodefinizione, un’etichetta ripensata per attirare gli investitori e potenziali visitatori – consumatori. La nuova identità della città doveva donarle una valida opportunità di sopravvivere in questo nuovo contesto neoliberale, mettendo d’accordo chi non voleva più identificarla con il suo passato industriale e chi riconosceva invece la sua vera anima proprio nella sua ricca storia. L’idea più avvincente e forse più realistica considerato il contesto, la immaginava trasformata in una città creativa, un luogo di cultura. Puntare tutto sulle sue risorse intangibili legate alla cultura e renderle fruibili economicamente significava però intensificare la sua attrattiva promuovendo dei valori locali del tutto peculiari e unici. Una città moderna  che non vuole rinnegare le sue origini industriali. Anzi, vuole valorizzare questa sua eredità, promuoverla, farla diventare un prodotto “culturale” pronto per essere venduto attraverso i suoi musei, centri culturali, alberghi, servizi ed eventi.
È innegabile che una città che dispone di un’immagine ben elaborata ha più possibilità di attirare vari investitori e di conseguenza importanti flussi di denaro. Solo così potrà migliorare ulteriormente il suo aspetto e fornire diversi tipi di servizi ai suoi residenti e ospiti.
Una delle più recenti campagne pubblicitarie della città al livello internazionale consiglia di evitare eventuali investimenti… a meno che tu non sia creativo, aperto, flessibile, pronto a tutto. “…perché Łódź ti sorprenderà, ti farà vivere un’esperienza straordinaria!”.
Łódź deve anche misurarsi con la concorrenza rappresentata da altre città al livello nazionale e internazionale. Ci deve essere un valido motivo per cui le persone sceglieranno in futuro di venire proprio qui, per lavoro, per svago, per interesse culturale. La pianificazione strategica ha un’ importanza fondamentale nel reinventare la città. Occorre però procedere con prudenza: le autorità locali responsabili per le politiche urbane devono agire evitando che la cultura, il patrimonio artistico e il paesaggio urbano diventino semplici strumenti di marketing sconnessi dall’identità locale. Il rischio è che la città perda la sua credibilità  e si trasformi in un semplice  prodotto di consumo, l’ennesima espressione del mondo globalizzato nel quale i mattoni rossi delle vecchie fabbriche cittadine difficilmente troveranno una collocazione.


Riferimenti:

Dematteis G. e Lanza C., Le città del mondo, Torino, UTET Università, 2014;

Fannon F., I dannati della terra, Torino, Einaudi, 2007;

Pinelli B., Migranti e rifugiate. Antropologia, genere, politica, Milano, Edizioni Libreria Cortina, 2019.