— di Katarzyna Piotrowicz
Pubblicato il 3 aprile 2023
Łódź, situata nel centro della Polonia, è una città dalle mille definizioni, storicamente conosciuta soprattutto per l’industria tessile e per la famosa scuola di cinema frequentata da grandi registi di fama mondiale come Polański, Kieślowski e Żuławski. Spesso ignorata dagli studiosi del settore, sconosciuta ed esclusa dai percorsi turistici più popolari, da decenni ormai cerca di trovare una nuova identità incentrata sui servizi e gli eventi culturali. Per comprendere meglio la sua essenza attraverseremo gli ultimi quarant’anni della sua storia in un viaggio spazio-temporale diviso in tre capitoli. Inizieremo questo percorso negli anni ’80, periodo di grandi cambiamenti che porteranno alla dissoluzione di tutto il blocco comunista. Proseguiremo soffermandoci sul decennio successivo per osservare come il crollo dell’industria abbia cambiato l’identità di Łódź e in che modo abbia influito sulla vita dei suoi abitanti. Nell’ultima parte del nostro viaggio ci concentreremo sui primi decenni del nuovo millennio. Da questa prospettiva potremo osservare la situazione attuale e valutare l’aspetto di una città reinventata, costretta a rapportarsi con le nuove opportunità che le sono state offerte dall’era della globalizzazione e del neoliberismo.
Anni ‘80: la fine del vecchio mondo e un nuovo inizio
Come tutte le grandi città europee, Łódź può essere studiata e osservata sotto diversi punti di vista. Alla visione di una città metropolitana, con i suoi grandi progetti e slogan internazionali, si contrappone un luogo vissuto dai suoi abitanti, carico di significati. Il parco, la scuola, il centro della città, i quartieri residenziali, inseriti in questo contesto diventano spazi “abitati”, costituiscono punti di riferimento e creano i percorsi di una mappa mentale che si sovrappone quasi perfettamente a quella fisica. I luoghi creati dalle autorità si contrappongono, secondo l’idea espressa da De Certeau nel suo libro L’invenzione del quotidiano, agli spazi cittadini nel loro uso abituale, animandoli e impedendo che si riducano ai criteri standardizzati della loro organizzazione spaziale.
Łódź, la città-fabbrica, ideata secondo un modello di origine ottocentesca, imponeva la costruzione di insediamenti operai nelle vicinanze degli stabilimenti industriali. In base a questa disposizione logistica, come ricordano Carla Lanza e Giuseppe Dematteis, autori del libro Le città del mondo, ci fu un paternalismo non del tutto disinteressato “in quanto gli operai erano affrancati dai tuguri malsani in cui si affollavano un tempo, ma erano anche sottoposti a un controllo padronale, che oltre agli affitti, arrivava in certi casi a imporre l’acquisto dei beni di prima necessità in spacci gestiti dall’azienda stessa”1Dematteis e Lanza 2014, p. 23
A Łódź si trovano numerosi esempi di questa organizzazione strutturale dello spazio. Diversi quartieri si sono sviluppati nei pressi delle fabbriche più importanti della città, predestinati a ospitare le abitazioni degli operai. I complessi residenziali costruiti dagli industriali spesso ospitavano solo una parte, quella più specializzata, dei lavoratori. Altri si accontentavano di quei “tuguri malsani” sopra citati, spesso concentrati in determinati quartieri della città che a distanza di anni, ignorati dalle amministrazioni locali, rimasero abbandonati in un profondo degrado. Negli ultimi decenni queste zone si sono spesso rivelate troppo centrali e logisticamente vantaggiose per rimanere nelle mani dei suoi abitanti originari, motivo per cui sono state sottoposte a numerose operazioni di gentrificazione e riqualificazione. Queste politiche, conosciute come urban renewal e urban regeneration, praticate inizialmente nel Regno Unito e negli USA e poste a ricostruire quartieri particolarmente degradati attraverso accordi delle autorità locali con promotori e costruttori immobiliari, hanno coinvolto tutta l’area metropolitana di Łódź.
Alle fine della Seconda Guerra Mondiale la Polonia si ritrova inserita nella sfera d’influenza sovietica, diventando uno dei paesi del blocco comunista. Tutti gli aspetti della vita politica, economica, sociale e culturale dipendevano dal partito, l’iniziativa dell’individuo veniva sistematicamente limitata bloccando così lo sviluppo della società civile.2L’insieme delle associazione formate dai cittadini che operano fuori dal contesto istituzionale.
La vita pubblica non includeva una partecipazione sociale basata sull’illimitato scambio di idee e sulla libertà d’espressione. Il periodo di Solidarność3Sindacato autonomo dei lavoratori fondato il 17/09/1980 in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica, Polonia. negli anni 1980-81 costituisce un’eccezione. Secondo il sociologo Maciej Frykowski in quel periodo il monopolio statale si incrinò notevolmente, creando un nuovo sistema di legami sociali e nuove opportunità di partecipazione e cooperazione sociale.
Focalizzando la nostra attenzione proprio su quel decennio possiamo comprendere in un modo più completo come fu vissuto dagli abitanti di Łódź, un periodo difficile, colmo di incertezze e rinunce, alla vigilia della grande trasformazione legata al crollo del blocco comunista e alla, tanto sognata, apertura all’Occidente.
Lo Stato diventa proprietario e custode di tutto in base ad un modello paternalista. Il potere lasciato nelle mani del popolo era assai limitato e contribuiva, come sostiene Anita Miszalska, alla percezione dello Stato-guardiano della vita collettiva, l’unico distributore di beni.
Questo atteggiamento, basato sulle alte aspettative nei confronti dello Stato, si traduceva non soltanto in mancanza di iniziativa individuale ma anche in un’incapacità di assegnare un giusto valore al lavoro e in un atteggiamento cinico che negli ambiti lavorativi invogliava spesso ad assumere comportamenti poco propositivi, apatici e di dubbia professionalità.
Nei vecchi quartieri operai, la maggior parte delle abitazioni dava la stessa impressione di trascuratezza e degrado più o meno accentuati. I cortili interni, raramente curati, spesso ospitavano le mitiche Fiat 126 dai colori più impensabili. I pochi fortunati in possesso di un’auto potevano contare praticamente esclusivamente su questo modello, chiamato dai polacchi con il vezzeggiativo Maluch, la piccoletta.Questa minuscola macchina, come tanti altri oggetti materiali presenti in quantità ridotte in Polonia a quei tempi, potrebbe rappresentare l’esempio di un oggetto neutrale inserito in un Umwelt, termine tedesco che corrisponde all’universo soggettivo, usato da Jakob von Uexkull per descrivere un ambiente presente nello spazio vitale di un organismo. Per i polacchi la 126 assunse un significato molto più ampio delle sue consuete caratteristiche funzionali. Non era soltanto una vettura, era un membro di famiglia, un oggetto prezioso, compagno di viaggi e improbabile luogo d’interazione sociale.
La maggior parte degli edifici residenziali apparteneva alla città. L’amministrazione locale prestava poca cura alla loro manutenzione. Erano gli stessi abitanti ad occuparsene all’occorrenza oppure, più sovente, a non fare proprio nulla per tenerli in piedi. Oltre alle tipiche case appena descritte, c’erano un numero piuttosto ridotto di case private e varie tipologie di condomini di costruzione più o meno recente. Questi edifici, bloki, davano spesso l’impressione di non essere mai stati terminati: per poter rispettare il diritto di ogni cittadino ad avere un alloggio garantito dallo Stato, si costruiva velocemente dando poca importanza alle rifiniture. Ovviamente non si diventava proprietari di una casa ma la si occupava in veste di residente legale. L’attesa era lunga e i genitori più previdenti aprivano un libretto-casa (książeczka mieszkaniowa) per i propri figli già alla loro nascita per raccogliere i risparmi che sarebbero stati necessari per l’acquisto di un appartamento. Un’usanza paragonabile a quella degli americani che da quando diventano genitori risparmiano per poter mandare i figli all’università, problema che, invece, nella Polonia comunista non esisteva affatto. L’educazione, anche quella accademica, era tutta a carico dello Stato.
Nei condomini vivevano famiglie di ogni tipo e provenienza: operai, medici, insegnanti, impiegati.
Gli appartamenti erano relativamente piccoli (da venticinque a un massimo di settanta metri quadri) e ogni famiglia cercava di personalizzare il più possibile la propria casa dando origine a un insieme eterogeneo di abitazioni tutte diverse tra loro inserite in un unico contesto condominiale dall’apparenza triste e anonima.
C’era la curiosa abitudine, molto diffusa negli anni ’80, di appropriarsi delle lampadine condominiali lasciando al buio scale, cantine e ascensori. Questo problema è stato col tempo risolto dagli ingegnosi amministratori condominiali: colorando le lampadine con vernice rossa le rendevano quasi del tutto inutilizzabili in un contesto domestico.
“Le salite nell’ascensore illuminato dalla luce rossa e intermittente sono davvero indimenticabili” – ricorda Marta, 48 anni. Per evitare eventuali incubi notturni, da ragazzina saliva le scale a piedi, solo di giorno però, con la luce del sole che filtrava attraverso le piccole finestre della tromba delle scale. Di sera anche lì l’illuminazione non era assicurata.
Abitare nei vecchi quartieri operai significava spesso avere a che fare con abitazioni fatiscenti, prive di fogne e affette da problemi legati all’erogazione irregolare di acqua corrente. Ricevere una nuova assegnazione dalle autorità corrispondeva in questi casi a un netto miglioramento delle condizioni di vita. La maggior parte di queste case è stata successivamente demolita o sottoposta a una ristrutturazione integrale. A volte l’urgenza di avere una casa nuova era dovuta alle dimensioni ridotte degli alloggi o alla difficile convivenza multigenerazionale.
Ewa racconta che “vivere con i genitori o con i suoceri non era per niente facile. Le relazioni si deterioravano facilmente. In queste condizioni chiedere aiuto nella gestione dei figli era fuori discussione, bisognava arrangiarsi. Noi abbiamo vissuto in queste condizioni per otto anni, alla fine i miei suoceri sono riusciti a ottenere un nuovo alloggio ma a quel punto il mio matrimonio era irrecuperabile”.
Le famiglie non erano particolarmente numerose. Rispecchiavano perfettamente la media statale, 2+2, due genitori, solitamente entrambi lavoratori, e due figli. Gli stipendi bassi richiedevano la co-partecipazione alle spese di entrambi i genitori. In un simile contesto avere più figli comportava importanti problemi gestionali e logistici, anche perché gli alloggi erano talmente piccoli che spesso già un nucleo di quattro persone faceva fatica a starci.
Monika: “Per anni abbiamo vissuto in quattro in un monolocale, noi due più due figli piccoli. Più il nostro cane, un pastore del Tatra di circa 60 kg e un pappagallo. Non stavamo male economicamente, semplicemente vivevano tutti così, ammassati. Non ci facevamo caso.”
Nella Polonia degli anni ‘80 il primo ciclo scolastico durava otto anni. Le prime tre classi, con alunni di età compresa tra i sette e i nove anni, erano gestite da una sola insegnante affiancata da colleghi responsabili delle lezioni di educazione fisica e musica, diplomati rispettivamente in Scienze motorie e al Conservatorio. Al quarto anno di scuola si passava a un modello in stile college. Ogni materia aveva una propria aula, erano gli studenti a cambiare classe alla fine di ogni lezione.
Le scuole di allora vantavano la presenza settimanale di un’igienista, che una volta al mese controllava i capelli per limitare i problemi di pediculosi, un’infermiera e una biblioteca aperta tutti giorni e gestita da una bibliotecaria professionale. Con il crollo del sistema la presenza nella scuola di queste figure non fu più così scontata.
A partire dal 5° anno si iniziava a studiare la lingua russa. Era una materia obbligatoria, era l’unica lingua straniera prevista dalla programmazione didattica. Soltanto nelle scuole superiori di secondo grado l’offerta di lingue straniere era più ampia. Tutti sapevano che in una prospettiva futura il russo sarebbe servito ben poco. I giovani sognavano di andare un giorno a New York, non a Mosca. Per studiare l’inglese occorreva iscriversi ai corsi esterni e fortunatamente, nonostante tutto, la città offriva diverse opportunità.Per diversi anni nelle scuole superiori veniva insegnata una materia piuttosto particolare imposta dallo Stato – przysposobienie obronne, ovvero formazione alla difesa. Ogni cittadino doveva essere in grado di difendere la propria patria dalle “grinfie” dell’imperialismo occidentale. Le lezioni erano cariche di propaganda comunista, aspetto che si è notevolmente affievolito nel corso del tempo: si parlava della grande amicizia che ci legava ad altri paesi del blocco, di quanto era corrotto il capitalismo. Lo scopo fondamentale di queste attività paramilitari era quello di preparare i giovani ad ogni possibile attacco:“Dovevamo essere pronti ad eventuali azioni invasive dell’occidente.” – ricorda Julia – “alle guerre nucleari, chimiche, biologiche. Dovevamo saper sparare, peccato che i fucili che avevamo in dotazione durante le esercitazioni risalivano ai tempi della Prima Guerra Mondiale. Anche le maschere antigas sembravano prese dal set di un film dell’orrore. Le più divertenti in assoluto erano le manovre sul campo – si facevano simulazioni di varie tipologie di attacchi, nucleari, biologici, chimici. A turno si recitava la parte delle vittime con diverse ferite finte sparse su tutto il corpo. La difficoltà stava nel riconoscere la tipologia dell’attacco e come contrastarlo dal punto di vista sanitario, come proteggersi ed evacuare i feriti. Quando lo racconto adesso alle nuove generazioni o agli amici dell’Occidente non ci credono, sembra una vera follia…”.
Il sistema statale di welfare era organizzato molto bene. Questo permetteva ai genitori di trattenersi al lavoro quanto necessario. Le scuole aprivano alle sette del mattino. Non offrivano vere e proprie attività, ma solo uno spazio all’interno della scuola presidiato da un educatore professionale.
In caso di necessità subentravano i nonni ma la loro presenza non era scontata perché spesso erano ancora attivi lavorativamente.
Il ruolo femminile nel contesto familiare era fondamentale ma complesso. Il sistema imponeva l’immagine di donne emancipate, forti e robuste, alla guida di un trattore, treno o navetta spaziale.
Ma poi, quelle mogli e madri, dopo otto ore di duro lavoro tornavano a casa e si ritrovavano da sole a gestire i figli e la casa.
La divisione della vita sociale in due ambiti, pubblico e domestico, si concretizzava in un modo particolare nelle società comuniste. Se nella cultura occidentale le donne venivano identificate con la natura più che con la cultura a causa della loro innegabile partecipazione attiva alla riproduzione biologica e cura dei figli, lasciando così, come ben evidenzia Moore, il mondo sociale degli affari pubblici nelle mani degli uomini , nei paesi comunisti l’abolizione di qualsiasi tipo di discriminazione avrebbe dovuto in teoria permettere alle donne di realizzarsi pienamente in tutti contesti della vita. Le donne comuniste, attraverso la propaganda del partito, sono state il simbolo dell’emancipazione femminile, protagoniste dei complessi processi di produzione e attive partecipanti della politica. Ma questa trasformazione sociale non rispecchiava le aspettative culturalmente e tradizionalmente radicate nella società. La donna impegnata nella vita politica, sociale o culturale a scapito della famiglia veniva vista come un problema, un fallimento.
Lo Stato comunista aveva basato la propria economia sullo sviluppo dell’industria pesante. Aprivano acciaierie, cantieri navali, miniere, consumando la maggior parte delle risorse finanziarie che lo Stato aveva a disposizione. Ma i prodotti dell’industria pesante non rendevano in tempi brevi, restituendo gli investimenti e portando guadagni: è difficile ammortizzare una miniera o un locomotore in pochi anni. La politica basata sull’economia programmata si addiceva a questo settore ma non a quello legato alla produzione dei beni di consumo. Lo Stato non poteva prevedere la quantità di prodotti destinati all’uso quotidiano dei suoi cittadini.
Krzysztof: “Come fai a prevedere quanto sapone o shampoo useranno le persone? Oppure quanti calzini dovranno cambiare nel corso dell’anno? È impossibile! Con il tentativo di prevedere il consumo di carta igienica, si arriva veramente all’assurdo. Mancava sempre, quando la ‘lanciavano’ in un negozio si creava immediatamente una fila lunghissima. Non tutti riuscivano a comprarla, chi riusciva ad aggiudicarsela si allontanava con ghirlande di rotoli legati da una corda appesa al collo suscitando l’invidia di tutti i passanti, sembra incredibile ma è tutto vero! La cosa ridicola è che questi imbarazzanti dettagli si sono sparsi velocemente in giro, chi arrivava dall’estero se ne portava una scorta, meglio prevenire che rimanere senza…”.
Nei primi anni ’80 la Polonia è stata travolta dagli eventi legati al tentativo del sindacato Solidarność, nato nei cantieri navali di Danzica, di opporsi al partito alla guida del paese.
A dicembre del 1981 il governo decise di contrastare le sempre più coraggiose manifestazioni di malcontento e il crescente supporto della popolazione al leader sindacale Lech Wałęsa, imponendo la legge marziale durata circa due anni.
Il paese, che già dalla fine degli anni ‘70 aveva affrontato importanti problemi di approvvigionamento, è sprofondato in una grave crisi economica e la conseguente razionalizzazione degli alimenti che permetteva ad ogni famiglia soltanto una determinata quantità di cibo, pagato con i soldi ma ottenibile solo presentando dei buoni rilasciati dallo Stato. La quantità di un determinato prodotto dipendeva dalla composizione della famiglia, chi aveva i figli poteva comprare più latte e dolciumi, agli adulti si concedeva una certa quantità di alcol e sigarette. Queste limitazioni creavano una rete di scambi e alimentava il mercato nero. Alla fine, in qualche modo, si riuscivano a ottenere prodotti di vario tipo, attendendo con pazienza il proprio turno nelle infinite code davanti ai negozi o creando una rete di conoscenze, scambi e compravendite.
L’antropologo statunitense Igor Kopytoff vede in questo meccanismo un elemento intrinseco di ogni sistema di scambio. La mancanza permanente dei prodotti e l’esistenza di un forte mercato nero nel sistema economico locale obbligava spesso i consumatori ad acquisire il diritto di partecipare nelle transazioni, di entrare quindi in una determinata rete sociale attivamente coinvolta in queste catene di reciproci scambi.
Per i prodotti alimentari c’era anche un altro canale, quello della famiglia residente in campagna. Chi abitava fuori città non soltanto aiutava la propria famiglia ma spesso riusciva anche a crearsi un giro di clienti nell’ambito del mercato illegale.
Un altro modo di recuperare oggetti di vario tipo e utilità o di integrare le proprie risorse finanziarie era legato ai pacchi-regalo che arrivavano regolarmente in quel periodo ad alcune famiglie fortunate dai parenti o conoscenti residenti all’estero, oppure associazioni fondate, sempre nei paesi occidentali, dai connazionali da tempo emigrati, proprio per fornire aiuti.
I discorsi politici erano da evitare ovunque, non soltanto nei luoghi di lavoro o a scuola, ma anche in casa in presenza dei bambini.
Erano tempi strani, di transizione. Dopo i fatti del 1981 la fiducia della maggior parte della popolazione nei confronti dello Stato si esaurì definitivamente. Il cambiamento era imminente, non era ancora chiaro come si sarebbe manifestato, ma la certezza che prima o poi sarebbe avvenuto era piuttosto diffusa. Tutti stavano molto attenti a non far trapelare nulla riguardo alle proprie convinzioni. Non si sapeva mai con chi si aveva a che fare e un momento di disattenzione poteva risultare fatale. Chi era comunista continuava silenziosamente a sostenere il governo non ostentandolo troppo, chi stava dalla parte dell’opposizione temeva le repressioni.
Mantenere un profilo basso, continuare a lavorare non suscitando troppo interesse – queste erano le regole base. L’industria locale continuava a impegnare la maggior parte della popolazione ignorando le crepe sempre più profonde nell’intero sistema che presto avrebbe rivelato la sua politica del tutto fallimentare basata sugli accordi economici stipulati tra gli stati membri dell’orbita sovietica.
La massiccia produzione industriale ha reso Łódź una città piuttosto inquinata. Per tutta la durata delle sue attività produttive intensive le amministrazioni locali non hanno dimostrato alcun interesse per problemi legati alla gestione sostenibile dell’ambiente. Per contrastare gli effetti nocivi dell’aria, spesso irrespirabile, i cittadini cercavano di trascorrere più tempo possibile nei parchi e boschi ampiamente diffusi nell’area metropolitana e nei dintorni.
Inoltre, in risposta alle politiche welfare dello Stato, alle fabbriche, ditte e aziende venivano assegnati terreni o edifici in zone del paese particolarmente adatte al riposo e al relax. Al mare e sui laghi, nei boschi e in montagna venivano creati centri di vacanze destinati ad ospitare la classe lavorativa.Per tante persone, il diritto di avere delle settimane di vacanza e poterle trascorrere a costi irrisori fuori dalla città era una grande conquista. Tanti operai solo grazie a questi incentivi statali hanno potuto per la prima volta immergere i piedi nel Baltico o salire sul Gievont4La vetta più alta della catena dei monti Tatra.. Lo Stato pensava anche alla sistemazione estiva dei ragazzi, organizzando colonie, campi scout e centri estivi operativi in città per tutta la durata delle vacanze.
La maggior parte delle persone che hanno vissuto quel periodo sono d’accordo sul fatto che il desiderio che accomunava tutti era quello di vivere in modo dignitoso, essere liberi. Tutte le limitazioni imposte dallo Stato, il controllo negli spostamenti, la censura ecc., non hanno fatto altro che accrescere un sentimento di ingiustizia e risentimento. L’Occidente e i suoi stili di vita sono stati idealizzati, portando migliaia di persone a prendere la difficile decisione di partire in cerca di una vita migliore, esperienze che per alcune persone si sono rivelate fatali anche a causa dello scontro con la dura realtà di vita da emigrato.
Secondo l’antropologo statunitense Marshall Sahlins esistono due percorsi per raggiungere il benessere: “I bisogni possono essere facilmente soddisfatti o grazie ad un’alta produttività oppure limitando al massimo le proprie esigenze”. Il benessere materiale può essere considerato una condizione eccezionale nella Polonia degli anni’80. Di certo i cittadini sono riusciti a resistere dignitosamente a questo momento difficile riducendo al minimo le loro esigenze.
Riferimenti:
Dematteis G. e Lanza C., Le città del mondo, Torino, UTET Università, 2014;
De Certeau M., L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2009;
Frykowski M., Zaufanie spoleczne mieszkancow Łodzi, Łódź, Wydawnictwo Uniwersytetu Łódzkiego, 2005;
Ingold T., Culture and the Perception of the Environment, in Croll E. & Perkin D. (eds.), Bush Base: Forest Farm. Culture, Environment and Development, London, Routledge, 2002;
Kopytoff I., The Cultural Biography of Things, in Appadurai A. (ed.), The Social Life of Things. Comodities in Cultural Prospective, Cambridge, Cambridge University Press 1986;
Miszalska A., Reakcje społeczne na przemiany ustrojowe, Łódź, Wydawnictwo Uniwersytetu Łódzkiego, 1996;
Moore H.L., Gender and Status: Explaining the Position of Women, in Moore H.L. (ed.), Femminism and Anthropology, Cambridge, Polity Press 1988;
Sahlins M.D., Stone Age Economics, Chicago, Aldine Atherton, 1972.