Decolonizzare la natura incontaminata

Aspetti di resilienza e di continuità del pensiero nativo tra ontologie, ecologie e social media — di Giovanna Luciano e Accursio Graffeo
Pubblicato il 18 febbraio 2023


Siamo abituati a immaginare un certo modo di relazionarci e di vedere il mondo, ma lo sguardo antropologico mostra come la realtà sia sempre più complessa e articolata di quanto ci si possa aspettare. In questo articolo tratteremo due argomenti apparentemente separati ma che, come vedremo, non lo sono affatto, ovvero l’uso dei social media da parte di alcune popolazioni indigene del bacino Amazzonico e il modo in cui l’antropologia ha messo in discussione la dicotomia tra il concetto di natura e cultura.

Indigeni e social media
Le nuove tecnologie e i social media fanno parte della vita quotidiana di moltissime persone, hanno raggiunto perfino gli angoli più remoti della terra. Diversi popoli indigeni dell’America Latina, in particolare coloro che abitano la foresta Amazzonica, hanno cominciato a utilizzare questi strumenti nella loro quotidianità, modificando il loro modo di relazionarsi, di pensare a sé stessi e di interagire nel mondo.
In alcuni sistemi di credenze degli indigeni dell’Amazzonia le relazioni, la socialità e la personalità si costruiscono attraverso la corporeità. Perciò, il corpo è investito di profondi significati, i quali oggi sono vissuti anche attraverso i social media e le nuove tecnologie digitali; anche in questo mondo “virtuale” è possibile sperimentare la rappresentazione visuale e scritta di sé, la costruzione della parentela, la possibilità di effettuare scambi simbolici e materiali, la condivisione di rituali e cure tradizionali. Questo in passato poteva avvenire con un numero ristretto di soggetti e in spazi fisici definiti; ora attraverso la digitalizzazione e la connessione internet tutto ciò può essere condiviso nello stesso momento con molte più persone anche distanti tra loro.
Molti indigeni, che abitano all’interno delle foreste in America Latina cominciano a spostarsi verso le città, non solo per mantenere i rapporti locali, per effettuare acquisti o commerciare, ma anche per collegarsi alla rete internet e controllare i propri account e le e-mail. Siamo così di fronte a un nuovo spazio di relazioni e connessioni, che queste persone hanno imparato a utilizzare per trarre maggiori possibilità e benefici.
L’impiego di questi strumenti è diversificato: dalla costruzione di relazioni con persone distanti e altrimenti irraggiungibili, alla possibilità di autodeterminazione e mobilitazione sociale, come mezzi di supporto allo studio e all’alfabetizzazione, all’organizzazione di incontri e di festival culturali, al commercio online, ma anche all’alleanza con persone non indigene, fondamentali nelle battaglie contro l’appropriazione indebita delle terre e delle foreste.
In particolare, i giovani appartenenti alle comunità indigene, che vivono nelle aree urbane, utilizzano i social media come strumento di divulgazione e di sensibilizzazione verso temi come l’esclusione sociale degli indigeni, la valorizzazione delle loro tradizioni, della lingua e della cultura. Lo fanno attraverso foto e video in cui indossano abiti tradizionali o in cui parlano di deforestazione illecita e appropriazione delle loro terre per favorire l’agricoltura intensiva [link].
Possiamo affermare perciò, che la connessione a internet e la possibilità di creare account social hanno generato nuove modalità di resistenza allo sfruttamento delle risorse e delle terre che appartengono a queste popolazioni; cosa che in Brasile, negli ultimi anni, si sta verificando in modo sempre più frequente, a causa delle politiche che violano i diritti di queste comunità, permettendo la privatizzazione e l’espropriazione dei loro territori.
Diversi popoli e comunità si sono riunite in associazioni per far fronte a queste violenze e lo hanno fatto anche attraverso la creazione di account su social media come Facebook e Instagram. Grazie a queste piattaforme sono riusciti a denunciare le violenze subite e a stringere rapporti e accordi con ONG, organizzazioni internazionali e attivisti di tutto il mondo, che affrontano la lotta contro il cambiamento climatico e che si sono interessati alla loro storia e al loro movimento.
In questo modo, i social media sono divenuti non solo un mezzo si autopresentazione e autodeterminazione personale, ma anche uno strumento di costruzione di alleanze e di raggiungimento di una maggiore visibilità a livello nazionale e internazionale nella lotta contro lo sfruttamento di questi territori, definiti spesso come “natura incontaminata” dal discorso comune.
Quest’idea di natura non intaccata dall’azione umana è in realtà un costrutto culturale che appartiene al concetto occidentale di natura, vista come qualcosa di differente e separato da tutto ciò che concerne l’attività umana. Le popolazioni indigene hanno compreso questa differenza, si sono alleate con le organizzazioni internazionali e occidentali che si impegnano contro lo sfruttamento delle risorse naturali, apprendendo il loro modo di pensare, ma rimanendo comunque distanti da esso. Ad esempio, se consideriamo i movimenti indigeni brasiliani che si sono uniti in associazioni come l’APIB (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil) [link] [link], contro lo sfruttamento delle loro terre e della foresta amazzonica, possiamo osservare le differenze e le contraddizioni tra i diversi significati che emergono nel confronto con organizzazioni occidentali, in particolare per quanto riguarda le definizioni e i concetti di foresta. Nella narrazione mainstream del dibattito ambientalista la foresta amazzonica viene definita spesso “polmone verde del mondo”, ma secondo alcuni attivisti indigeni questo nome non è appropriato, in quanto rimanda a un’immagine idealizzata e romanticizzata di foresta e di natura.

Decolonizzare la foresta e la natura
Secondo l’attivista indigena brasiliana Celia Xakriabá, è importante, nella lotta contro la deforestazione, riuscire a decolonizzare i concetti come natura e foresta amazzonica incontaminata, perché non rispecchiano la realtà dell’esperienza vissuta dalle popolazioni che abitano questi luoghi.  Il nome Amazzonia, ad esempio, rappresenta solo una parte della biodiversità della foresta. I nativi utilizzano anche altri nomi che identificano biomi differenti come Cerrado, Mata Atlantica, Caatinga e Pantanal. Allo stesso modo è sbagliato parlare di natura incontaminata, in quanto le comunità che abitano da tempo questi luoghi sono sempre state in relazione con la foresta, modificandone la composizione e contribuendo allo sviluppo della specifica biodiversità.

Celia Xakriabá
Universidade de Brasília from Brasília, Brasil, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

L’idea di natura selvaggia, non intaccata dall’azione umana, si è sviluppata con i primi esploratori di queste terre, i quali hanno osservato un ambiente molto diverso da quello a cui erano abituati. Ancora oggi quest’immagine è dominante e si collega all’idea di una terra disabitata, lontana da ogni interazione con la specie umana; ma ciò che i popoli indigeni cercano di portare nel dibattito pubblico internazionale si contrappone a questi immaginari; essi cercano di dimostrare la loro presenza e la loro relazione profonda con quei territori. Una relazione che connette la terra e i corpi che la abitano, che si costruisce attraverso processi storici e culturali differenti per ogni popolazione.
Secondo Celia, l’attivista sopra citata, la deforestazione non riguarda solo le piante e la biodiversità, ma è una deforestazione collettiva, comunitaria che riguarda anche le vite delle persone, intese come parte di un intreccio di relazioni.
Il pensiero nativo ci ha abituato ad accogliere gli elementi del mondo circostante, che abbiano a che fare con pratiche culturali, ecologiche, politiche, sociali o religiose, nell’ottica della continuità. Linee di demarcazione nette, contrapposizioni polarizzate, dicotomie, classificazioni e categorizzazioni troppo marcate sembrano essere perlopiù patrimonio del pensiero occidentale. Le pratiche native sono state capaci nel tempo di disvelare un’enorme complessità che ci costringe a prenderle in considerazione con estrema serietà. Lungi dall’essere condizioni anacronistiche di un passato lontano o dimenticato, tali esperienze e visioni del mondo ci impongono di dover fare i conti con cosmologie e interpretazioni ecologiche capaci di reggere il passo con la contemporaneità. La concezione nativa del mondo – anche attraverso il filtro dei social network, dei canali “virtuali” di comunicazione e di espressione del proprio esistere – diviene elemento per reclamare un principio di conservazione del proprio ecosistema, nonché l’implicita ammissione di essere protagonisti agenti di un mondo comunque antropizzato, frutto di trasformazioni e di interventi autoctoni atti a modificare e rendere fruibile ciò che è considerato “natura”.

Buffalo Hunt, Chase, painting by George Catlin, 1844
George Catlin, Public domain, via Wikimedia Commons

Anche in questo caso la polarizzazione tra natura e cultura sembra sfumare in modo evidente nel pensiero nativo. Il riconoscimento di una propria azione fa da specchio alla rivendicazione di un’idea di conservazione della natura basato non tanto su principi astratti e idealizzati, bensì su criteri di sostenibilità e di riconoscimento di un legame più profondo e ontologico tra ciò che viene distinto come “uomo” e ciò che viene annoverato nel campo delle altre specie, elementi e fenomeni della natura. Nel discernimento di una comune natura e di una partecipazione a una ecologia concertata, si annida per contro la constatazione di essere attori dotati della capacità di agire sul proprio territorio apportando trasformazioni, oppure utilizzandolo nel quadro di una visione cosmologica originaria. Il pensiero contemporaneo occidentale ha sviluppato una visione spesso idealizzata dell’ecologia nativa: decontestualizzata, conservativa, quasi svincolata dal proprio territorio. Si incorre nel rischio di non tenere conto di quanto i tratti culturali e simbolici dei popoli siano iscritti nel paesaggio in modo profondo. L’affermazione di un’appartenenza sostanziale delle popolazioni indigene agli elementi della natura non ha impedito di osservare fenomeni in aperta contraddizione col senso di conservazione erroneamente attribuito alle popolazioni native. Un esempio pratico: per i nativi del Nord America, prima dell’impatto degli  Europei che ne avrebbe poi stravolto lo spazio, il tempo e la storia, la presenza dei bisonti non era mai stata  messa in discussione; alcune pratiche di caccia, di asportazione e utilizzo di parti limitate del singolo  animale cacciato – segnatamente l’asportazione della sola lingua – rientravano all’interno di una  visione cosmologica in cui “i bisonti sarebbero sempre tornati nelle Pianure, a dispetto di quanti se ne  fossero cacciati”1D. Wishart, Great Plains Indians, University of Nebraska Press, London-Lincoln, 2016, p. 50. (Traduzione di chi scrive).. Tali pratiche assumevano la forma dello “spreco” e della mancanza di attenzione e cura se osservate attraverso un filtro idealizzato e decontestualizzato.

Natura e cultura, reale e virtuale
Questo legame con la propria ecologia e una diversa ontologia tende a far sfumare le differenze. Allo stesso modo, nel dibattito nativo sulle piattaforme digitali, tendono ad essere sfumate le divergenze tra le categorie del “reale” e del “virtuale”, come realtà e dimensioni interrelate che rappresentano l’una l’estensione dell’altra, strettamente legate a forme di resistenza culturale anche più remote e isolate. Un meccanismo di rispecchiamento nei contesti della modernità che è capace di raccontare tanto di una determinata cultura quanto di metterne in evidenza significati e contraddizioni, in un mondo sempre più interconnesso e incapace di attendere oltre i tempi dell’immediatezza.
L’ingombrante eredità del pensiero europeo volta ad enfatizzare l’opposizione natura/cultura è oramai posta da tempo in discussione, ed è oggetto di dissezione e ricomposizione all’interno di quei paradigmi capaci di determinare quella “svolta ontologica”, in grado di aprire i termini della riflessione nell’ottica di una correlazione tra umani e non-umani. Non più, pertanto, come opposizione tra soggetto e oggetto, bensì in termini di dialogo tra “persone”. Nel pensiero nativo il continente amerindiano è abitato da diversi tipi di persone – categoria fatta emergere da Irving Hallowell – come soggetti umani e non umani, ognuna in grado di percepire la realtà da un peculiare punto di vista. Il termine trascende i soli esseri umani e arriva ad abbracciare una moltitudine di elementi: animali, piante, fenomeni atmosferici, e così via, ognuno portatore di una propria agency, un proprio linguaggio, una propria socialità, ecc. Ne consegue, come ricorda Viveiros de Castro parlando di prospettivismo, che non il solo essere umano è portatore di intenzionalità cosciente e riflessiva, ma che altri ordini di esistenza sono in grado di assumere tale onore. Un prospettivismo che investe il piano delle relazioni piuttosto che quello delle essenze e della natura costitutiva dell’essere. L’apparenza corporea viene a costituirsi come involucro dell’esistenza, un indumento che cela la vera forma, quella umana, in origine indifferenziata e comune tra le specie. Il piano dell’esperienza assume carattere fondante della cosmologia nativa, al punto che ogni essere vivente, animato o inanimato, come ci ricorda Ingold, può trovare piena espressione soltanto all’interno di un tessuto di relazioni con altre persone (intese secondo l’accezione nativa). L’imprescindibilità dell’esperienza che il sé fa del mondo è uno degli elementi centrali anche del pensiero di Descola, all’interno di un percorso di “oggettivazione” di ciò che è altro-da-sé. Questo processo viene avviato, secondo l’antropologo francese, dal costante dialogo tra il polo dell’interiorità (la coscienza intenzionale) e della fisicalità (il proprio corpo), che nell’incontro con l’altro assumono le formule classificate come “totemismo” (con fisicalità e interiorità identiche alle mie), “analogismo” (con fisicalità e interiorità distinte dalle mie), “animismo” (interiorità simili, fisicalità eterogenee), “naturalismo” (interiorità differenti, fisicalità analoghe). Si vengono a creare così quattro diversi tipi di ontologia – che includono anche la compresenza di differenti modi di identificazione – ancoraggio e terreno per la costituzione di cosmologie, di modelli sociali, di forme di identità e di riconoscimento dell’alterità.
La cosiddetta “svolta ontologica” in antropologia ha aperto il campo della riflessione e dell’indagine a una dimensione più ampia dei concetti fondanti della disciplina. In questa visione composita l’essere umano vede in qualche modo una dismissione del proprio ruolo di detentore di termini come “cultura”o “natura”, nell’ottica di una dimensione che assume caratteri maggiormente relazionali e dialogici con le alterità circostanti, anch’esse portatrici di fattori ed elementi culturali, di conseguenza in grado  di fungere da attori di rivendicazioni e di istanze (anche) di tipo ecologico. La consapevolezza dell’uomo sembrerebbe così virare nella direzione di un’assunzione di responsabilità nei confronti della preservazione e tutela delle culture tutte, anche quelle afferenti ad altre specie.
Nell’alveo della complessità delle visioni native, del simbolismo, delle cosmologie, delle ecologie, delle forme di lotta e di espressione e rappresentazione di sé, gli strumenti della contemporaneità (social media, nuove tecnologie, ecc.) sembrano inserirsi più in un’ottica di continuità che di frattura con istanze, temi e modalità del passato. Una continuità che si riscontra anche in quelle forme di rappresentazione delle pratiche, delle essenze e delle ontologie che tendono a sfumare i confini piuttosto che a marcarli e tracciarli in modo netto e univoco. Confini sfumati in cui il rapporto tra uomo e natura, uomo e animale, natura e cultura sembra delineare un percorso nella storia, nel mito e nella società che assume caratteristiche di adattabilità e resilienza che rappresentano forse la vera forza del pensiero e della tradizione nativi nel confronto con il contemporaneo.


Riferimenti:

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Descola P. (2005), Oltre natura e cultura, Firenze, SEID, 2014;

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Wishart D., Great Plains Indians, London-Lincoln, University of Nebraska Press, 2016.